Dina Lentini
…la serie del commissario Habib è stata concepita dall’autore come il mezzo letterario per trasmettere conoscenza e speranza, tra i maliani ma anche tra gli occidentali, nell’ambito di un percorso politico di riflessione e di battaglia…
(N.d.R. questo saggio, completamente rivisto, ampliato e arricchito di analisi sugli ultimi romanzi di Konaté, anche inediti, fa ora parte del saggio di Dina Lentini: “Il romanzo poliziesco contemporaneo tra tensione morale e impegno sociale” , Delos, 2019)
Parlare di Moussa Konaté, scomparso nell’autunno dello scorso anno, significa parlare del Mali e dell’escalation che la “guerra delle sabbie” sta attraversando propri in questi giorni e che fa temere un’evoluzione drammatica dello scenario sud sahariano in un possibile nuovo Afghanistan.
Considerato non solo un intellettuale impegnato, esponente di punta della letteratura maliana contemporanea, ma un vero ambasciatore della cultura africana nel mondo, MK ha dedicato la sua esistenza alla costruzione di un progetto di ampio respiro che ha il suo nodo fondamentale nell’ideale di una umanità libera che interagisce in una dimensione internazionale.
In questo senso, parlare dei romanzi polizieschi di K può persino apparire riduttivo, eppure la serie del commissario Habib è stata concepita dall’autore come il mezzo letterario per trasmettere conoscenza e speranza, tra i maliani ma anche tra gli occidentali, nell’ambito di un percorso politico di riflessione e di battaglia contro le forme di vecchio e nuovo colonialismo. I gialli di MK vanno perciò letti con questa premessa di base: sono uno dei tanti mezzi, dall’editoria ai racconti, ai lavori teatrali, agli opuscoli didattici e alle storie per bambini, che lo scrittore utilizza per trasmettere le immagini dell’Africa e del suo paese in particolare.
Membro dell’ONU e avviato dai primi anni novanta verso una politica di democratizzazione e ammodernamento dello stato, il Mali ha seguito un percorso contraddittorio da un lato rinforzando i legami economici con altre aree africane, ma anche cercando appoggio, per risolvere i conflitti interni, nel sostegno dei paesi occidentali, l’ex-madre patria francese e gli Stati Uniti. Le politiche neoliberiste e neoprotezioniste dei paesi occidentali hanno comunque finito per frenare, soprattutto nel settore cerealicolo, uno sviluppo adeguato ed equo del commercio dei prodotti africani e maliani. Dopo il colpo di stato del gennaio 2012 e l’esplosione della rivolta indipendentista Tuareg a nord, la situazione si è complicata sia con l’emergenza terrorismo, sia con la militarizzazione del territorio dovuta al varo della missione European Union Training Mission Mali che vede coinvolta in primo piano la Francia con la presenza di un contingente di più di tremila uomini. Il paese è precipitato nella più massacrante delle guerre civili.
In modo generoso e appassionato, MK ha seguito fino alla fine della sua vita questi avvenimenti che per lui devono aver segnato il tradimento della speranza e la conferma della “maledizione” dell’Africa.
Convinto sostenitore del valore della letteratura e della cultura in genere come strumento rivoluzionario di comunicazione e crescita dei popoli, Konaté ha spesso sottolineato anche il pregio letterario del romanzo poliziesco, da trattare come romanzo in senso pieno e non come espressione di letteratura “di genere”. La sua formazione classica gli permette di costruire storie che rispettano gli ingredienti tradizionali e la complessità della trama tipica del crime-novel. La caratterizzazione dei personaggi è risolta nella relazione di individui e gruppi con l’ambiente sociale e culturale cui appartengono: in questo senso, nonostante la psicologia dei singoli sia delineata con grande attenzione e partecipazione, vero protagonista risulta la comunità, l’intreccio di condizioni materiali e spirituali che fanno la specificità di un insieme umano. Ricchi di tensione, frutto di un buon dosaggio di humor e pathos, questi romanzi avvincono il lettore per la forza morale che li anima e per la capacità di trasmettere immagini con la semplicità e l’eleganza che sono il risultato della padronanza assoluta dei mezzi narrativi e linguistici.
Della serie dedicata al commissario di Bamako, Habib, in parte ormai tradotta in italiano, vengono qui analizzati L’honneur des Keitas e L’assassin du Banconi, pubblicati per Gallimard già nel 2002, noti ormai al pubblico italiano. Maggiore attenzione viene data all’ultimo lavoro, Meurtre a Timbouctou, pubblicato lo scorso anno per le edizioni Fayard e uscito poi postumo nell’aprile di quest’anno per le edizioni Métailié, con cui l’autore aveva preso accordi, e di cui non è ancora disponibile la traduzione italiana.
L’assassin du Banconi, 2002, Gallimard – L’assassinio di Banconi, 2010, Del Vecchio Editore
Nella periferia di Bamako, in uno dei quartieri più degradati e sovraffollati, viene ritrovata nelle latrine una donna morta apparentemente di morte naturale. La famiglia ne accoglie la salma, confortata dalla comunità dei vicini e dall’intervento prima dell’imam, poi del potente marabout Ladji Sylla che invita i parenti a rassegnarsi alla volontà di Allah, unico creatore e attore dei destini umani. Il tentativo del giovane Ibrahim, uno studente, di fare luce sulla morte della madre viene immediato stroncato. Il ragazzo viene coinvolto in un losco affare di falsificazione di danaro che richiama l’attenzione delle forze dell’ordine. Quando alla prima morte seguono altri due cadaveri, un uomo e una donna, sempre nello stesso luogo e nelle stesse condizioni inspiegabili del primo, Habib e il suo giovane collega Sosso cominciano a chiedersi se i due casi, di truffa e di morti sospette, non siano legati. Ibrahim è un giovane ingenuo che è stato manipolato? O un criminale esperto in ogni furbizia? Chi è Pascià, il ragazzo elegante e di larghi mezzi che molti testimoni hanno scambiato per Ibrahim? Il commissario deve affrontare le resistenze della famiglia, sottoposta alla pressione delle autorità religiose e di pratiche tradizionali che sconfinano nella superstizione. Habib ne ha pietà e cerca di muoversi nel modo meno invasivo in un mondo che sembra al di fuori delle regole dello stato di diritto. Ma questa è la situazione e bisogna affrontarla: fingendo un disincanto che non prova quando, ironizzando,afferma che dovere della polizia non è quello di filosofeggiare ma di mantenere l’ordine, il capo de la Brigade Criminelle fornisce in realtà a Sosso un’attrezzatura mentale che gli permette di maturare e affrontare con umanità le contraddizioni della società in cui vive. La verità è nelle vie desolate di Banconi, nei tuguri che si affacciano sul fango e sui canali di scolo, nei desideri modesti di una umanità miserabile facile preda di profittatori senza scrupoli.
L’honneur des Keitas, 2002, Gallimard – L’onore di Kéita, 2011, Del Vecchio Editore
Il commissario Habib e l’ispettore Sosso hanno appena chiuso l’inchiesta nel rione di Banconi quando si ritrovano ad affrontare un nuovo caso ancora più delicato. Il cadavere irriconoscibile ritrovato a galleggiare nel bacino d’acqua di un cantiere è sicuramente opera di un omicidio e le tracce insieme alle scarse testimonianze portano a indagare in direzione di una delle più rispettate famiglie della zona, quella dei nobili Keita. Alternando situazioni di comicità a momenti di tensione drammatica, MK fa vivere una serie di personaggi, alcuni vere e proprie macchiette, che declinano nei tanti modi possibili il malessere di una umanità disorientata e alla deriva. Anche in questo romanzo protagonista è la famiglia tradizionale, incapace di reggere il confronto con la modernità eppure da questa attirata, chiusa in modo intransigente nel rispetto di regole precostituite che tendono a perpetuare le distinzioni di casta, l’asservimento di uomini e donne ad un senso primitivo e violento dell’onore, il potere dell’apparato religioso. In alcune splendide pagine Konaté rappresenta la forza dei vincoli tribali e il potere di suggestione esercitato su popoli inermi e timorosi dalla magia. La rassegnazione a subire un ruolo deciso dalla nascita, dall’appartenenza ad un villaggio, ad una etnia, ad una famiglia finisce per massacrare gli uomini,rendendoli folli e portandoli a pagare un prezzo altissimo.
En route pour Tombuctou, Fayard aprile 2013, (non tradotto in italiano)
Meurtre a Tombuctou, Métailié, aprile 2014, Omicidio a Timbuctù, Del Vecchio editore 2019
L’ultimo poliziesco di MK presenta qualche differenza rispetto ai precedenti romanzi della serie del commissario Habib. Qui la storia è costruita con un continuo rifermento agli eventi storici attualmente in corso nel Mali e il messaggio politico dell’autore si fa più forte, incisivo e diretto. Gli altri thriller ruotavano soprattutto intorno al rapporto tradizione/modernità, tema centrale della riflessione di K e tema esso stesso politico per eccellenza, affidato alle meditazioni equilibrate del commissario filosofo e del suo giovane collaboratore Sosso. L’accelerazione della guerra fra il 2012 e il 2013, la combinazione esplosiva di interessi internazionali e di guerra civile, rendono ancora più esplicito il discorso politico sul destino tragico dell’area sud sahariana, la visione del mondo si fa più amara e disincantata. Habib, alter ego dell’autore, mantiene comunque alto il livello di razionalità e di equilibrio: figura paterna, funge da educatore per i suoi collaboratori, cercando di svilupparne le doti positive del coraggio e dell’energia, frenandone le intemperanze e sollecitando un livello maggiore di riflessione e di conoscenza. In questo senso il commissario rappresenta l’ideale della transizione del mondo africano verso una società rispettosa dei valori tradizionali ma anche impegnata contro gli aspetti irrazionali e violenti che ne frenano lo sviluppo; Sosso e gli altri poliziotti della sua età sono, in una dimensione ancora immatura, il nuovo, la speranza che questo ideale possa realizzarsi.
Al momento della stesura di questo libro Timbuctu ha già perso da tempo il suo carattere di città magica, custode dei reperti di una civiltà millenaria: il suo mito si è sbriciolato insieme a quello di Mopti, la città fluviale costruita sulle isole, “la Venezia del Mali”. L’architettura e la storia secolare di città un tempo crocevia di ricchezza e di scambi mercantili che percorrevano tutta l’Africa del deserto verso il nord mediterraneo e verso l’oriente hanno ceduto il passo alla realtà criminale dei traffici di droga e di armi che convivono in parallelo, ma comunque contaminandola, con una società patriarcale e arcaica. Anzi, è proprio il mondo dei pastori, delle comunità del deserto accampate appena fuori le periferie cittadine, quello che più risulta usato e abusato: la loro integrità, la loro fierezza può essere facilmente incanalata verso altri scopi che li sovrastano, verso guerre che non sono le loro.
Eppure il fascino di questi luoghi è ancora in grado di emozionare. Il libro si apre con un grandioso scenario del deserto visto dalla prospettiva di un accampamento tuareg. Il sole è allo zenit, l’aria di di dicembre ancora calda non brucia più, l’orizzonte si dispiega all’infinito perdendosi tra le ombre delle dune. Il deserto brulica di vita nella sua immensità. E arrivando da Bamako sulla strada che porta a Timbuctu, il paesaggio si snoda diverso, ma sempre maestoso, verso l’area fluviale e lo spettacolo fatato del Niger. Non c’è niente di pittoresco a Tombouctou, ma la città leggendaria dei trecento santi ormai ridotta a città fantasma cattura sempre con la sua magia.
Il ritrovamento nel deserto del corpo senza vita di Ibrahim, un giovane tuareg, seguita da minacce e spari contro un cittadino francese dà il via all’inchiesta: Habib viene convocato a Tombouctou, dove collaborerà con il commissariato locale in quanto la morte del giovane pare legata a possibili azioni terroristiche. Mentre i funzionari governativi, le autorità locali e gli esponenti dell’ambasciata francese seguono con sicurezza questa pista, Habib nutre dubbi sulle responsabilità di Aqim, il movimento jihadista che ha installato nella zona il suo quartier generale. Il commissario ha l’esperienza umana e storica sufficiente per diffidare delle manovre antiterroristiche, preferisce concentrarsi sulla complessa situazione sociale e sulle vecchie storie di famiglia che oppongono tra di loro i membri di clan chiusi rigidamente nella difesa delle questioni private. Konaté si dilunga sull’opportunismo che, generato da interessi diversi, compatta i vari gruppi di potere locali e occidentali: quella della lotta per la sicurezza nazionale e internazionale contro i fondamentalisti islamici è la facile bandiera che giustifica ogni intervento di emergenza e sancisce l’accordo tra gli stranieri chiamati in aiuto e i governi locali corrotti.
Habib si immerge in una città che non conosce a fondo, segue varie piste, non esclude nulla. La società tuareg non è generalmente islamista, ma qualche tuareg potrebbe esserlo. In ogni caso è un mondo articolato, dove la donna ha un suo ruolo forte all’interno della famiglia. La madre di Ibrahim ne è un esempio: donna ormai anziana e malata,continua a reggere e armonizzare le difficili relazioni familiari, utilizza le sue conoscenze che spaziano dalla medicina naturale di tipo tradizionale alla letteratura; è una delle più importanti poetesse tuareg e nel deserto i poliziotti sentono intonare dai minatori di salgemma che rientrano dal lavoro un suo poema. Del resto, come osserva il commissario, i tuareg attribuiscono il ruolo di antenato ancestrale ad una donna.
Dalle indagini risulta comunque un allontanamento di Ibrahim dalle tradizioni segnate dai padri e rigidamente osservate nelle famiglie: uso di fumo e di bevande alcooliche, frequentazione di occidentali, forse un’altra donna oltre alla legittima consorte che attende un figlio da lui e, ancora più inquietante, tracce di droga nel sangue. Le possibilità di indagine si allargano mentre Habib deve fare i conti sia con le minacce degli imams e del governatore locale, sia con la fierezza dei parenti del morto. Alcuni comportamenti ambigui generano sospetti, ma poi portano in un vicolo cieco. Mentre i suoi giovani collaboratori agiscono indipendentemente seguendo loro ipotesi e lanciandosi in un crescendo di avventure e di colpi di scena, Habib riflette, ricostruisce dettagli sparsi e sensazioni, intuisce la possibile verità. L’ultima parte del libro è godibilissima per l’esplosione di eventi che si accavallano con un ritmo serrato e persino comico. L’inchiesta è chiusa, i poliziotti possono ripartire senza troppi sconvolgimenti per gli equilibri locali.
Le considerazioni conclusive del commissario Habib riportano il lettore a quello che per Konaté è il cuore della questione dell’ Africa nera: il vecchio Mali non è ancora stato vinto dal nuovo Mali e forse non è così che funziona; le analisi degli europei, esterne ed interessate, sono state introiettate dagli stessi africani generando una spiegazione irrazionale (e pericolosamente razzista) del blocco dello sviluppo in un continente così ricco di storia e di risorse economiche. Intrappolati nella loro debolezza, i neri d’Africa sembrano condannati al destino della fame, della malattia e della morte, un destino reso ancora più tragico dalla dimensione del paesaggio magnifico, dal fascino dello scenario naturale e dei resti di civiltà scomparse.
La speranza non può che venire dalla considerazione che il problema africano è un problema umano, che occorre conoscere quali meccanismi hanno permesso ad alcune società di svilupparsi mentre ad altre questo percorso è stato negato.
copyright 2014 diritti letterari riservati Dina Lentini e La Natura delle Cose. In via d’eccezione questo articolo NON è distribuibile sotto licenza Creative Commons.
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