Nino Martino
l’educazione scientifica nella scuola primaria, ovvero: c’è speranza per l’educazione scientifica?
Da un po’ di tempo in qua, quando faccio un corso di formazione per es. per insegnanti delle primarie, riesco a tenere incollata l’attenzione dell’uditorio per due ore, tre ore. Si lavora insieme, si perde ogni ritegno per fare domande e ipotesi di vario tipo, ci si accalora, ci si entusiasma reciprocamente (bontà loro: gli esseri umani sono assai più tenaci e resistenti di quanto comunemente si creda nella galassia…). In una di queste, chiamiamole così per convenzione, lezioni era presente un carissimo amico del Nord che mi fece una osservazione alla quale lì per lì non seppi assolutamente rispondere. Mi disse: “ma tu sai la fisica…”.
l problema sta in quella parolina messa all’inizio: “ma”. Rimane sottinteso che finito il mio corso di formazione il giorno dopo gli insegnanti saranno nella classe concreta e non riusciranno a fare le cose che abbiamo fatto insieme. Perché “non sanno la fisica come la so io”.
Mi diceva, il mio amico, che nei miei corsi c’è una sicurezza, una capacità di cogliere gli interventi sostanziali, una abilità nel dirigere i lavori e le risposte che vengono dal fatto che io so molta fisica.
(breve inciso: i miei corsi di formazione NON sono impostati con proiezione di diapositive che spiegano per filo e per segno il metodo scientifico. Invece, con tutti partecipanti del corso, ci si sporca le mani, tutti insieme, e il metodo scientifico viene fuori da quello che facciamo, con le mani sporche, con gli esperimenti successivi. E anche se l’argomento è lo stesso ogni corso è differente da un altro, dipende dalle domande, dalle ipotesi, dalle proposte di esperimenti. Ogni collettivo che si forma è sempre diverso. No problem: così è assai più divertente per tutti…)
Come ho detto poc’anzi lì per lì non seppi rispondere. Lo scenario davanti era tragico: far fare a tutti gli insegnanti delle primarie almeno tre anni di fisica ( non di ingegneria o matematica, ma proprio di fisica), poi magari una selenzioncina e rimandarli in classe per poter fare un po’ di educazione scientifica decente, fatta in modo cooperativo e collettivo con i bambini.
Pochi giorni fa mi sono chiesto, finalmente, ma io so veramente la fisica?
La mia tesi di laurea era sperimentale e di avanguardia (per quei tempi), era una tesi sull’effetto Josephson e sulle applicazioni per misurare resistenze piccolissime alle temperature prossime a quella dell’elio liquido. Good grief! Ricordo perfettamente il senso della mia tesi, ricordo perfettamente di quando ruppi l’uovo di pasqua e trovai una pistolina di plastica che misi sopra all’apparato sperimentale che si rifiutava di funzionare come volevo io (e da quel momento funzionò tutto perfettamente, ovvero poiché gli esseri umani amano molto la causalità temporale a e a volta la sovrastimano…, la pistolina NON venne mai più spostata dalla sua posizione) ma non sono più in grado di leggere e capire le equazioni e le formule che allora mi erano chiarissime.
Non sono più in grado di leggere il Landau (famoso fisico teorico russo che scrisse una celebre serie di libri di testo universitari di fisica), di alto livello e rigore) se non con sforzo di applicazione.
Non so scrivere l’apparato teorico che sta dietro alla formula del pendolo, dovrei riguardare tutto.
Mi ricordo, ricordo solamente, che anni fa, studiando relatività, ho passato un intero pomeriggio dietro le trasformazioni di Lorentz-Einstein interpretate come rototraslazioni (e che entusiasmo, allora!)
Non so più praticamente nulla al di fuori di quella che è la routine dell’insegnamento nelle superiori, con brevi puntatine sulla relatività e sulla fisica quantistica.
L’elettromagnetismo è il mio forte ma se si scava un po’ in profondità dovrei rimettermi a studiare.
Ehi, gente, ma io la fisica NON la so!
Eppure chi che assiste alle mie lezioni (non solo quelle di formazione alle primarie…) è assolutamente convinto che io sappia molta fisica.
Ci deve essere qualche cosa che non funziona.
Ma che cosa vuol dire sapere la fisica?
Se significa sapere equazioni, formule, dimostrazioni, apparati di vario tipo, io, ma molti altri credo, non so la fisica. Non ne so niente, proprio niente.
Ma anche Einstein, forse, anche Maxwell. Sapevano già tutta la fisica perfettamente, o erano in grado di fronte a problemi i più disparati, di ragionarci sopra e dare delle risposte magari decisive? Mi raccontava Marco di Milano che studiando un po’ di storia della fisica aveva incontrato questo gustoso aneddoto: Einstein sbarca in America e gli pongono un test minuzioso, e tendenzioso, per vedere se sapeva una certa quantità di cose. Einstein si rifiuta dicendo che un fisico sicuramente quella roba lì non la deve sapere.
Non sto dicendo che se faccio una ricerca specifica devo trascurare l’apparato di spiegazioni o la teoria, sto dicendo altro.
Sto dicendo che forse una speranza c’è, per l’educazione scientifica.
Forse chi mi ascolta percepisce un metodo, un atteggiamento, una concezione del mondo, un rigore, un libero accettare le ipotesi più fantasiose senza scartarle a priori, una ricerca nel mondo.
Ma se questo è fare educazione scientifica allora non è necessario fare tutta la fisica, sapere tutta la fisica.
Bisogna invece assimilare il metodo, l’atteggiamento, la concezione del mondo. Allora un corso di formazione, seppur relativamente breve, può avere il suo senso. E’ necessario saper fare una ricerca, non sapere i risultati della ricerca, i risultati di ogni ricerca possibile, perché gli studenti stimolati dal metodo faranno un sacco di domande a cui lì per lì non sapremo rispondere.
Vi cito un esempio, per me bellissimo. Negli anni passati feci un corso di aggiornamento di molti pomeriggi con un gruppo di insegnanti delle elementari. In quella occasione andai anche in classe con i bambini. Una di queste insegnanti fece poi con la sua classe, una quinta elementare, una ricerca sui castelli di sabbia (sul motivo per cui i castelli di sabbia rimangono in piedi quando la sabbia si asciuga…), che durò mesi, in cui si usarono microscopi, in cui l’intera classe raccoglieva sabbia da tutte le spiagge, dai fiumi, analizzava, scriveva, faceva ipotesi. I risultati di quella ricerca furono, in qualche modo, più avanzati di una ricerca analoga che in altro tempo facemmo al dipartimento di Fisica di Genova. Era il metodo. Aveva funzionato il metodo, l’atteggiamento.
Non voglio dire, è ovvio, che, se uno ha il metodo, con una classe di quinta elementare può fare una ricerca sui superconduttori ad alte temperature o trovare quarks o cose strane in giro per l’universo.
Ma voglio dire che i bambini di quella classe si ricorderanno a vita una serie di cose, che forse frutteranno o forse no (la vita è complessa…), voglio dire che quello è stato un (raro) esempio di educazione scientifica. Tutti si appassionavano (me lo ricordo ancora adesso), nessuno era “disperso”, annientato, isolato dalla tipica frase “ma tu non capisci niente di scienza, non ci sei proprio portato, vai a zappare che è meglio…” (tipica frase detta dai “veri” ignoranti di fisica, che ci vadano loro a zappare!) (ma zappare non è poi così semplice, probabilmente non ne sarebbero nemmeno capaci).
Se guardiamo i programmi di fisica ai vari livelli sentiamo tutti l’esigenza di rinnovarli, di cambiarli. Ma il cambiamento deve andare in direzione di una essenzialità dei concetti, di un metodo che non sia solo teorico ma insieme sperimentale. Non possiamo riprodurre nell’educazione scientifica la separazione, pur necessaria per certi versi, tra teoria e pratica sperimentale. Non si tratta di ridurre i programmi, di diminuire il numero di “nozioni” da somministrare. Si tratta di altra cosa, sicuramente più difficile. Se a un certo punto insegnerò relatività, magari darò particolare risalto al fatto che i riferimenti (inerziali e non) sono un punto fondamentale di tutta la fisica. Certo che quando si costruì la fisica magari non c’era tutta questa attenzione, molte cose magari si davano per scontate (e scontate non erano affatto, come la misura del tempo…), ma ora tutto ciò fa parte del bagaglio nostro, di specie umana (o dovrebbe far parte del bagaglio…).
I programmi vanno rivisitati. Non si può pensare a una semplificazione nel senso di ridurre il numero di cose da fare. Si tratta di fare cose magari diverse in modo diverso. Ecco dove sta l’essenzialità dei concetti.
(stavo per scrivere “trasmettere dei concetti”, ma non credo che ci sia una trasmissione, non credo che abbia senso oggi, allo stato attuale delle ricerche nel campo, parlare ancora di trasmissione. Trasmettere implica per forza due termini: il trasmettitore e il ricevente. E il ricevente è vuoto, altrimenti che senso avrebbe la trasmissione? E’ invece un rapporto dialettico in cui si costruisce conoscenza e in cui un termine è più … “evoluto”, ne sa di più (e non solo di nozioni…).
Per concludere: se questa è la situazione allora è possibile formare, allora è possibile “sapere la fisica” e fare, in classe, dell’educazione scientifica decente senza bisogno di sapere tutto lo scibile…
Ehm, e sono anche più tranquillo, forse so davvero un po’ di fisica… (un pochino, insomma…)
PS
Qui sotto il video di una conferenza ai suoi studenti in cui il premio nobel per la fisica Richard Feynman spiegava cos’è il metodo scientifico…
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