Nino Martino
intervista alla scrittrice Giovanna Repetto
N. Ormai hai alle spalle un buon numero di romanzi e racconti, scrivi poesie, fai teatro. La mia solita curiosità: quando hai cominciato a scrivere?
G. Le prime storie di cui mi innamoravo erano raccontate a voce dai miei familiari. Così cominciai presto a inventare storie da raccontare a me stessa, molto prima di imparare a scrivere.
N. un buon punto di partenza, ma non è sufficiente a …
G. Avevo nove anni quando capii che la scrittura può servire per raccontare storie. Iniziai a scrivere un romanzo intitolato “Il marziano”. Non lo portai a termine, ma conservo ancora il quaderno.
N. Perché proprio la fantascienza?
G. Avevo visto il film di Robert Wise Ultimatum alla Terra. Quel film ha avuto un impatto folgorante su di me, direi quasi che mi ha dato un imprinting destinato a durare tutta la vita.
N. Col tempo però hai praticato altri generi.
G. Ho scritto anche gialli e noir. Non sono portata a scrivere storie troppo “normali”, benché io spesso prenda spunto dalla vita quotidiana. Nel quotidiano c’è sempre una buona dose di stranezza, si tratta solo di coglierla. La fantascienza mi si è imposta perché mi sono sempre appassionata a questioni scientifiche, immaginando tutte le implicazioni possibili. Passavo ore a discuterne con mio padre. La possibilità di speculare liberamente, praticando l’esercizio del “se…” è appunto quello che mi piace. Scrivo anche racconti surreali, quelli che adesso si chiamano weird. È l’aspetto irrazionale che si alterna a quello scientifico. Non a caso, in una certa fase dell’adolescenza, a farmi da guida erano Jules Verne e Edgard Allan Poe.
N. Ci sono diversi modi di scrivere. Molti partono da una scaletta, poi devono metterci questo e quello per tenere la tensione, poi , ecc. Leggendoti non mi sembra che tu segua questo modo di fare. Da dove parti quando ti viene voglia di scrivere?
G. L’ispirazione può venire da qualunque fonte: idee, esperienze, ricordi. Ma la scintilla può anche accendersi in modo apparentemente casuale. Una volta mi è venuto in mente un titolo divertente basato su un gioco di parole, e partendo solo dal titolo ho scritto un’intera commedia, che poi è stata premiata.
Certe volte ho già in mente tutta la storia, per sommi capi, ma più spesso parto per un viaggio che mi aspetto pieno di sorprese, verso una meta che scoprirò solo alla fine. Per esempio una volta mi è capitato di essere ossessionata da un’unica frase, che poi sarebbe diventata l’incipit di una storia tutta da inventare: Soldato, dove hai messo il tuo cilicio? Così è cominciata l’avventura de Il sigillo del dolore, una storia che ha tenuto anche me col fiato sospeso fino all’ultimo.
N. Sì, sospettavo una cosa del genere…
G. Ogni racconto o romanzo è un’avventura diversa. Non sono metodica, anzi… sono la scrittrice più indisciplinata che io conosca! Scrivo sulla base di idee che sorgono spontaneamente, ma a volte passano anni prima che un’idea maturi e acquisti il giusto spessore. A volte invece tutto accade in tempi rapidissimi. Non faccio mai schemi preparatori. In certi casi ho già in mente per grandi linee la trama, ma altre volte conosco solo l’inizio oppure la fine della cosa che scriverò. Posso cominciare da una situazione che mi appare stimolante o da un personaggio che si impone alla mia fantasia. A volte scrivo in ordine cronologico, in altri casi scrivo degli episodi che mi vengono in mente e solo alla fine faccio il “montaggio” come in un film. Molte idee mi vengono nel corso della scrittura. A volte mi limito a mettere i miei personaggi in certe situazioni, magari piuttosto intricate: li metto lì, nel teatro della mente, e sto a guardare come se la cavano. Quando un personaggio ha raggiunto un certo spessore, una certa coerenza interna, le sue azioni ne conseguono automaticamente. Così a un certo punto sembra che i personaggi si muovano da soli. Fanno cose che mi lasciano stupita!
N. Ma cosa è che ti fa scattare la voglia di narrare?
G. Io credo che qualcosa scatti quando due elementi di diversa origine si fondono in una sintesi creativa. Spesso, per esempio, c’è qualcosa nel presente che si ricollega a un ricordo, che in questo modo riprende vita in una forma nuova. A un certo punto sento che c’è un’idea, in forma embrionale, e la tengo nella mente esaminandola, coccolandola e studiandone le potenzialità. So che se ho troppa fretta rischio di bruciarla. Devo avvertire uno spessore, una solidità, prima di muovermi. Quando sento che è venuto il momento (come le doglie di un parto) comincio a scrivere e lo faccio ogni volta che mi sento di farlo. Da subito cerco di esprimermi nella forma più efficace e più elegante, ma so già che tornerò molte volte sopra il mio testo per perfezionarlo. A volte devo sviluppare o approfondire di più certe situazioni e quindi integrare il testo con nuove parti. Ma per quanto riguarda lo stile, di solito lavoro per sottrazione, perché sfrondare dalle parole in eccesso rende la comunicazione più efficace e più intensa emotivamente. A volte gli esordienti pensano di poter arricchire un testo usando molte parole e allungando descrizioni e spiegazioni. È tutto il contrario. Bisogna condensare ogni concetto in una sintesi forte, espressiva. Può essere avvantaggiato in questo senso chi pratica la poesia. È un buon allenamento per imparare a scegliere solo le parole più evocative sacrificandone altre. Ogni volta che prendo in mano il mio testo mi accorgo che posso renderlo migliore. È un processo potenzialmente senza fine, da cui mi salvano le scadenze e gli editori che mi strappano le pagine dalle mani!
N. Ognuno ha il suo metodo di scrittura, difficile dare delle regole anche se in molti ci provano. A darle, intendo. Quello che tu dici è personale, è come fai tu. Eppure mi sembra di cogliere un sottofondo che è possibile generalizzare, dai, di fatto, molti spunti di riflessione sul processo creativo che è alla base della scrittura, come dell’arte, o della musica. Ti volevo chiedere se tu scrivi con grande regolarità. Per esempio ti alzi al mattino presto e passi tre ore a scrivere tutti i giorni o cose così…
G. Non scrivo con regolarità, lo faccio quando mi sento di farlo. A volte l’impulso di scrivere è così forte che mi sento il diavolo addosso, e allora non ha importanza il quando e il dove: mi è capitato di scrivere anche aspettando il mio turno dal parrucchiere. In altri momenti devo fermarmi, come se avessi bisogno di una ricarica. La durata della prima stesura è molto varia. C’è stato un romanzo che mi ha tenuta occupata per nove anni, altri sono stati scritti in tre mesi.
N. Eh, ma questo modo di fare, di scrivere, non entra in conflitto con la vita quotidiana, che ha regolarità ripetizioni, necessità che si ripetono identiche?
G. In certi periodi della vita è stato duro conciliare la scrittura con lavoro e famiglia. A volte scrivevo quasi di nascosto. Quello che mi dà molto sostegno è il contatto con altri scrittori: c’è una sorta di comunità che si è formata intorno alla passione comune per la fantascienza e il fantastico. Mi piace partecipare a manifestazioni come Stranimondi, che oltre a essere fiere del libro sono momenti di incontro in cui ci si vede e si condividono informazioni e progetti, in un clima di festa. Ci si tiene in contatto e ci si supporta a vicenda. La collaborazione è molto più redditizia della rivalità.
N. Sì, la partecipazione a Stranimondi è stata importante anche per me, concordo, proprio per questi motivi. Ma volevo chiederti se quando scrivi un racconto o un romanzo ti capita di riversarvi cose che hai fatto o vissuto. Esiste un rapporto tra il prodotto finale di uno scrittore e la sua vita? Magari trasfigurate, ovviamente.
G. Nella mia scrittura è molto importante la funzione della memoria. Anche nelle fantasie apparentemente più lontane dal mio quotidiano, porto emozioni reali, frutto della mia esperienza personale. A volte si tratta di elementi profondamente trasformati, altre volte no. Per esempio, nella raccolta La mappa dei gesti possibili, formata da due racconti lunghi, uno di questi è Dispensatori di felicità. Si tratta di una storia di fantasia incastonata in un contesto molto preciso e di forte valenza autobiografica. È ambientato a Genova nel 1970, e pur avendo come protagonisti dei personaggi immaginari contiene situazioni e fatti riportati con esattezza dalla mia storia personale. Il più importante è l’alluvione di Genova, verificatasi in quell’anno, di cui io sono stata testimone diretta. È un episodio di cinquant’anni fa e non avevo mai sentito l’esigenza di raccontarlo, se non a parole, ma all’improvviso è venuto fuori perché mi è apparso straordinariamente funzionale alla storia che avevo in mente.
N. E i tuoi personaggi? Io leggo e li trovo assai reali, vivi. La domanda direi classica: che rapporto hai con i tuoi personaggi?
G. Una delle cose che mi piacciono, quando scrivo, è calarmi nel punto di vista del personaggio per descriverne l’esperienza. In un romanzo noir mi sono calata in una dozzina di personaggi. È stata una specie di sfida, anche perché la maggior parte dei personaggi aveva una mentalità molto diversa dalla mia, spesso addirittura opposta. In questo mi ha aiutato l’atteggiamento empatico che è proprio della mia professione di psicologa.
N. Sempre riguardo ai personaggi, al di là della necessità dello sviluppo della storia (se si può scindere, ma non ne sono convinto…), come li fai interagire tra loro, come ti poni il problema della loro interazione?
G. Un aspetto molto interessante per me è il tema della relazione e della comunicazione. Immaginare come possano, personaggi molto diversi, entrare in relazione e riuscire a comunicare. Questo tipo di esplorazione è una delle motivazioni che mi legano alla fantascienza. Nel racconto La camera dello sposo, inserito nell’antologia Divergender, il problema è come possa instaurarsi una comunicazione fra una donna e un alieno che si presenta in forma di massa gassosa.
N. Vero, nella fantascienza l’incontro con il diverso, con situazione diverse, con altri mondi, con altre possibilità è un fondamento che crea situazioni interessanti. Cadono le maschere della struttura quotidiana della vita, necessariamente. Ma ritorniamo al rapporto del vissuto dello scrittore con quello che scrive. Dunque tu scrivi per sfogo, per sfogarti in qualche modo?
G. Non scrivo mai per puro sfogo, qualunque esperienza personale deve essere sedimentata e trasformata in un elemento letterario. Ma l’evasione sì, quella la cerco. Quando ho scritto Il Nastro di Sanchez ero stanca, provata da una serie di seccature. Così ho trovato rifugio sul pianeta Tequiero, e mi ci sono trovata così bene che quella storia è diventata una trilogia (con Il figlio di Nergal e Tequiero La stagione dei mostri).
N. Tu hai partecipato con racconti che mi sono piaciuti molto anche ad antologie di letteratura dell’immaginario. Partecipare a un’antologia a tema non è in contraddizione con il tuo modo personale di lavorare?
G. Ho sempre scritto sulla base di un impulso spontaneo, ma col tempo mi sono resa conto dell’importanza che uno stimolo esterno può avere sulla scrittura. Per esempio l’essere reclutata per antologie a tema mi ha indotta a riflettere su argomenti nuovi, da cui poi con naturalezza sono scaturiti racconti convinti e convincenti come quelli a tema libero.
N. Come sai in ogni racconto, in ogni scritto, è importante la chiusura. Anche nella musica avviene lo stesso, un ritmo, una cadenza particolare che fa capire “ecco, ora ho finito di suonare, ho finito di scrivere, ho detto quello che volevo dire”. Come vuoi chiudere quest’intervista?
G. Penso che in un’intervista sia d’obbligo un finale aperto. Non è una battuta. È che mi aspetto sempre cose in grado di sorprendermi. In fin dei conti ogni atto creativo, per me, nasce dalla meraviglia.
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