Elio Fabri
il principio di indeterminazione significa che non possiamo conoscere? in talune facili interpretazioni del principio di indeterminazione risulta dominante il “non possiamo conoscere”, magari condite col “quindi non ha senso …” C’è tuttavia un altro modo di vedere tutta la questione…
Riprendiamo il discorso sulla fisica quantistica, sul suo sviluppo e soprattutto sulla sua “immagine esterna”, dove l’avevamo lasciato nella penultima puntata. Quanto all’immagine esterna, avevo scritto: “ci sono due parole chiave in quella che posso chiamare l’immagine esterna della m.q.: indeterminismo e complementarità“. Della complementarità ho detto abbastanza, e ora vorrei concentrarmi sull’indeterminismo, a proposito del quale scrivevo che “ha un suo fondamento e interviene in parte nell’uso quotidiano della teoria”; a differenza della complementarità, sulla quale ho dato un giudizio quasi totalmente negativo.
Ne segue che il discorso sull’indeterminismo dovrà essere più complesso, più legato ai contenuti della teoria e ai suoi risultati. Ma prima di cominciare vorrei ribadire quanto sia radicato un certo modo d’intenderlo in quella che ho chiamato l’immagine esterna, ossia il modo come la m.q. è entrata nel patrimonio “culturale” del nostro tempo. (Le virgolette qui sono d’obbligo, e stanno a significare che si tratta in realtà, a mio giudizio, di una forma di cultura di assai dubbio valore.)
Per sostenere la mia tesi ho scelto una via ben poco scientifica ma spero efficace: un florilegio di citazioni casuali, di brani in cui mi sono imbattuto in epoca più o meno recente, leggendo questo o quello. La casualità dovrebbe mostrare quanto sia facile incontrare una certa idea, in qualunque ambito e in riferimento ai più vari generi di discorso.
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Comincio con Marcello Sala, che su questa rivista scriveva nove anni fa [1]:
E anche sull’osservazione mi pare che non si possa far finta che il dibattito epistemologico del Novecento non abbia posto in modo irreversibile alcuni problemi come l’implicazione dell’osservatore nel fenomeno (e questo non viene dalle mode del pensiero debole, ma dal cuore più duro della fisica, la meccanica quantistica) […]
Ed ecco, più recente, Filippo Muratori [2]:
Comportamentismo e psicoanalisi sono entrate in crisi, insieme con l’approccio determinista, quando anche nel campo della Fisica il modello teorico della causalità lineare è stato messo in discussione dalla meccanica quantistica. Il principio di indeterminazione di Heisenberg ha indotto a pensare all’universo non più come a un sistema consequenziale, causativo, univoco e quindi prevedibile, bensì in termini probabilistici, per una intrinseca impossibilità di conoscere, con esattezza e simultaneamente, sia la quantità di moto che la posizione di una data particella sub-atomica. Dato che l’intero universo è composto da dette particelle, il principio di indeterminazione si è proiettato sull’intero campo dello scibile, con enormi conseguenze sul piano filosofico e teoretico, ed anche su quello biologico e psicologico.
Questa è più recente ancora, ed è tratta da un’intervista a un noto sociologo [3]:
S. Riguardo ai Big Data, la quantità senza precedenti di dati digitali su ogni attività umana, dovrebbero essere una manna per uno scienziato sociale. O invece alimentano l’illusione informaticocentrica che tutto possa essere calcolabile?
B. Già nel XVII secolo il grande matematico Pierre-Simon Laplace disse che se gli avessero fornito “tutti i dati” sullo stato del mondo avrebbe potuto predire ogni suo successivo stato. Sono ambizioni che ritornano. Tuttavia è una prospettiva impraticabile non a causa della scarsità di informazione quanto per l’essenziale e irreparabile contingenza del mondo e l’irremovibile [?] presenza di accidenti che lo caratterizzano. Le possibilità sono infinite e l’infinito non può essere calcolato.
S. Stiamo sconfinando sul terreno della meccanica quantistica, o sbaglio?
B. Esattamente. La “teoria dei molti mondi” propone che “ogni volta che si realizza un’azione subatomica l’universo si divide in multiple, differenti copie di se stesso, per cui ogni nuovo mondo rappresenta uno dei possibili esiti”. Un’ipotesi, questa degli universi costantemente proliferanti, rilanciata più di recente dalla “teoria delle stringhe”, che sostiene che esisterebbero 10.500 [10500?] diverse possibilità della loro equazione, pari ad altrettanti universi. Un numero che nessun computer può gestire.
Sorvolando sulla disinvoltura con cui Bauman si pronuncia su cose che non è in grado di capire, faccio solo due brevi commenti, relativi alle parentesi quadre. Il primo punto interrogativo l’ho messo perché a me “irremovibile” in quel contesto suona assai male; penso che si dovesse dire “ineliminabile”. Il secondo riguarda un presumibile refuso tipografico. Nell’articolo c’è proprio scritto 10.500, che non avrebbe alcun senso. Che dovesse essere 10500 è una mia ipotesi.
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Anche se poche e casuali, le citazioni che precedono potrebbero indurmi a parecchi commenti, ma debbo limitarmi. La prima cosa che è necessario osservare è che l’indeterminismo figura confuso in due accezioni, che dovremo esaminare perché sono in realtà diverse. Da un lato c’è il famoso principio d’indeterminazione (PdI): lo cita esplicitamente Muratori. Dall’altro c’è la non meno famosa “influenza dell’osservatore sull’oggetto osservato”, di cui parla Sala ma che in modo più nebuloso sta anche sotto al discorso di Bauman. Qui si collega anche la “rinuncia alla causalità” in favore di un’evoluzione probabilistica: Muratori parla anche di questo.
Suppongo che il lettore — figura astratta e impersonale cara a molti autori e che qui mi permetto d’introdurre anch’io — abbia avuto occasione d’incontrare un’argomentazione frequente nella divulgazione ma anche in testi pienamente autorevoli e rispettabili, a cominciare dallo Heisenberg che citavo nella puntata precedente [4]. Ne ho già parlato velocemente, ma forse è bene riprenderla con maggior dettaglio, come del resto avevo promesso. Scrivevo:
Un’interpretazione del principio di Heisenberg (vedremo poi perché ho scritto “un’interpretazione”) suona così: non è possibile misurare insieme, con precisione arbitraria, posizione e quantità di moto di uno stesso corpo.
Se le cose stanno così, PdI e “influenza” sono strettamente legati: il primo esprime in termini quantitativi e matematici il fatto (cui si allude col termine “influenza”) che non è possibile sapere alcunché su un qualsiasi sistema fisico, senza interagire con esso, e quindi senza alterarne lo stato. È quello che intendevo scrivendo:
Bohr e anche Heisenberg esaminano numerosi esempi di esperimenti volti a compiere la detta misura, e mostrano come ci siano sempre delle limitazioni intrinseche che portano appunto alla restrizione sulla precisione raggiungibile nelle misure simultanee.
Può forse sorgere l’obiezione: ma che scoperta è questa? Anche un astronomo, quando osserva un pianeta, può farlo perché è illuminato dalla luce del Sole; e il biologo che studia una cellula al microscopio ha bisogno d’illuminarla con adatto dispositivo (e anche di trattarla con opportuni coloranti). Insomma: che osservazione di qualcosa significhi in senso lato interazione, non è certo una novità…
Verissimo, ma il punto importante è che nella pratica macroscopica, almeno del fisico, questa interazione è di regola assai piccola, o si può fare in modo di renderla tale: è vero che la luce del Sole interagisce col pianeta, ma questo fatto non ne modifica apprezzabilmente l’orbita (ben diverso il caso della polvere interplanetaria …). Colorare una cellula significa ucciderla, ma è anche possibile osservare batteri vivi, seguirne gli spostamenti… Invece, quando si ha a che fare con oggetti ancora più piccoli (un atomo, o addirittura un singolo elettrone) le cose cambiano perché la minima interazione possibile consiste nel mandarci sopra un singolo fotone, e questo possiede una quantità di moto finita, che altera il moto dell’ente osservato.
Possiamo certo ridurre questa q. di moto, ma pagando un prezzo. Infatti la relazione di de Broglie p = h / l ci dice che per avere p piccola dobbiamo prendere grande l, ossia usare luce di grande lunghezza d’onda. Ma chiunque abbia lavorato con un microscopio sa che il potere risolutivo di questo è proporzionale alla lunghezza d’onda: per risolvere dettagli fini, occorrono lunghezze d’onda piccole. Quindi se il fotone deve perturbare poco la particella che stiamo studiando, necessariamente non potremo avere informazioni dettagliate sulla posizione di questa. Il PdI di Heisenberg esprime in una formuletta matematica appunto questo fatto.
Potrebbe sorgere (in un fittizio interlocutore, perché dubito che venga in mente ai miei lettori) il seguente dubbio: ma se questo è vero, non funziona anche quando un biologo studia un batterio? La risposta sta nel “mettere i numeri”, cosa alla quale — come sapete — io in particolare e ogni fisico in generale siamo particolarmente attaccati.
Supponiamo dunque che il nostro biologo lavori con luce della minima lunghezza d’onda che i suoi occhi possono vedere, diciamo luce blu: l = 400 nm. Quei fotoni avranno un impulso p = h / l = 1.6 ´ 10–27 in unità SI (sono sicuro che vi fidate del mio calcolo …). Il risultato dà la misura in cui la quantità di moto del batterio viene alterata per effetto dell’interazione col fotone. Questo ci dice poco, ma possiamo renderlo più significativo stimando la variazione della velocità. Dato che p = mv, per trovare la risposta occorre conoscere la massa di un batterio, il che non sembra facile, soprattutto perché i batteri non sono tutti uguali quanto a dimensioni, e quindi anche quanto a massa. Ma a noi basta una stima… Prendiamone uno piccolo, diciamo 0.5 mm di diametro. Facile calcolarne il volume, supponendolo sferico, e da qui la massa, assumendo che la sua densità media sia poco diversa da quella dell’acqua. Troviamo m = 6 ´ 10–20 kg e infine, per la perturbazione sulla velocità: Dv = 2.4 ´ 10-8 m/s. Un numero assai piccolo, anche rispetto alla modesta velocità con cui sono soliti muoversi i batteri. Figuriamoci se invece di un batterio avessimo considerato un pianeta!
Ecco perché nell’esperienza che ho chiamato “macroscopica” (in questo contesto anche un batterio è macroscopico) la perturbazione dovuta alla misura è del tutto trascurabile; le ragioni per cui una misura di velocità darebbe un risultato incerto sono ben altre, e non hanno niente a che vedere coi fenomeni quantistici: fotoni e compagnia bella.
Ma se al posto del batterio c’è un atomo d’idrogeno? Permettetemi di abbreviare: nelle stesse condizioni troveremo quasi esattamente Dv = 1 m/s (la curiosa coincidenza non ha alcun significato particolare). Non è molto, visto che la velocità di agitazione termica in un gas idrogeno a temperatura ambiente è più di 1000 volte maggiore, ma comincia a diventare apprezzabile. (Per inciso, la grande differenza rispetto a un batterio dipende dal fatto che questo contiene un gran numero di atomi: cosa alla quale forse non si pensa spesso.)
E se prendiamo un elettrone? Allora troviamo Dv » 1800 m/s, che non è poco… Anche se in realtà gli elettroni hanno spesso velocità assai maggiori, per cui solo in casi particolari ci si deve preoccupare del limite posto dal PdI alle misure di posizione e di velocità.
Lo scopo di questa sommaria analisi (quella che Heisenberg fa nel suo libro è ben più sofisticata e completa) era di motivare l’interpretazione del PdI che ho ricordata sopra: è l’incompatibilità di certe operazioni di misura che impone dei limiti alla nostra possibilità di conoscere in tutti i dettagli lo stato di un sistema quantistico. Così si esprime Muratori, ma così si esprime anche Bohr, nel brano che ho citato nella puntata precedente, e che vi voglio ripetere:
“non si può conoscere nello stesso tempo l’impulso e la posizione di un oggetto atomico”
Non si tratta dunque di una scarsa comprensione della materia, né di limiti della divulgazione: qui siamo alla stessa fonte della teoria!
Ma guardate ora all’ovvia implicazione di questo modo di descrivere il PdI: noi non possiamo conoscere, a causa di limiti posti ai possibili esperimenti. Ciò non impedisce però di pensare che la particella (batterio, atomo, elettrone) possieda in sé valori determinati di posizione e q. di moto, anche se a noi inconoscibili insieme.
Intendiamoci: Heisenberg (per fare solo un nome) non avrebbe mai accettato un tal modo di pensare. Avrebbe obiettato che non ha senso attribuire un qualche grado di esistenza a ciò di cui non possiamo avere conoscenza, che solo di ciò che possiamo sperimentare siamo autorizzati a parlare… Una posizione che potrei definire neopositivista, anche se sicuramente Heisenberg non avrebbe neppure accettato di essere iscritto a quella corrente di pensiero, a lui contemporanea.
Ho voluto insistere un pochino su questo aspetto, per rimarcare quanto sia pericoloso e fuorviante attribuire a fisici (anche e soprattutto) eminenti delle etichette filosofiche determinate. Quasi sempre tali attribuzioni sono arbitrarie e forzate: un fisico tende a ragionare con la sua testa, e si trova immancabilmente stretto dentro qualsiasi scuola. L’esempio di Einstein, al quale pure sono state attribuite etichette le più diverse, dovrebbe essere sufficiente a consigliare prudenza…
Però, tornando all’interpretazione del PdI, e senza approfondire la portata filosofica del fatto, risulta dominante in questa interpretazione il “non possiamo conoscere”, magari condita col “quindi non ha senso …” C’è tuttavia un altro modo di vedere tutta la questione, e ora vorrei esporlo, anche se sono consapevole che non mi sarà facile farmi capire.
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Posso forse riattaccarmi alla puntata precedente, che ho più volte citata. Commentando una citazione di Bohr, scrivevo:
[…] per lui la m.q. è uno “schema puramente simbolico”, qualcosa di radicalmente diverso dalla meccanica classica, che (presumo) descriverebbe invece direttamente e concretamente la realtà. Per la stessa ragione, il modo come formula il principio d’indeterminazione, e che ho già preannunciato di dover discutere, lo porta a porsi un problema ontologico, che a suo parere non si pone allo stesso modo se si resta nella fisica classica.
Col passare del tempo tale contrapposizione si è fortemente modificata; in particolare, nessuno oggi sosterrebbe una visione così ingenua del modo come la fisica classica rappresenta la realtà.
È arrivato il momento di scoprire le carte. Non mi voglio addentrare in una discussione sull’epistemologia contemporanea, per cui farò alcune asserzioni che forse non sono condivise da tutti; ma che credo rappresentino abbastanza bene un cambiamento di punto di vista che si è sviluppato nel corso del secolo passato, dopo Bohr e dopo Heisenberg. Forse il modo migliore è di ricorrere ancora a una citazione: la “metafora della rete” di Hempel [5]:
Una teoria scientifica è pertanto paragonabile a una complessa rete sospesa nello spazio. I suoi termini sono rappresentati dai nodi, mentre i fili collegati a questi corrispondono, in parte, alle definizioni e, in parte, alle ipotesi fondamentali e derivative della teoria. L’intero sistema fluttua, per così dire, sul piano dell’osservazione, cui è ancorato mediante le regole interpretative. Queste possono venir concepite come fili non appartenenti alla rete, ma tali che ne connettono alcuni punti con determinate zone del piano di osservazione. Grazie a siffatte connessioni interpretative, la rete risulta utilizzabile come teoria scientifica: da certi dati empirici è possibile risalire, mediante un filo interpretativo, a qualche punto della rete teorica, e di qui procedere, attraverso definizioni e ipotesi, ad altri punti, dai quali, per mezzo di un altro filo interpretativo
[…] per lui la m.q. è uno “schema puramente simbolico”, qualcosa di radicalmente diverso dalla meccanica classica, che (presumo) descriverebbe invece direttamente e concretamente la realtà. Per la stessa ragione, il modo come formula il principio d’indeterminazione, e che ho già preannunciato di dover discutere, lo porta a porsi un problema ontologico, che a suo parere non si pone allo stesso modo se si resta nella fisica classica.
Col passare del tempo tale contrapposizione si è fortemente modificata; in particolare, nessuno oggi sosterrebbe una visione così ingenua del modo come la fisica classica rappresenta la realtà.
, si può infine ridiscendere al piano dell’osservazione.
Così una teoria interpretata consente di inferire il verificarsi d’un fenomeno descrivibile in termini osservativi, ed eventualmente appartenente al passato o al futuro, sulla base di altri fenomeni osservabili già accertati. Ma l’apparato teorico che, con l’assicurare un ponte fra i dati di fatto acquisiti e i risultati empirici potenziali, permette di giungere a tali asserzioni su eventi futuri o passati, non è, in genere, formulabile in termini di soli osservabili. L’intera storia della scienza mostra che nel nostro mondo principi ampi, semplici e attendibili per spiegare e prevedere fenomeni osservabili non possono venir stabiliti unicamente ammassando e generalizzando induttivamente i risultati empirici. Occorre una procedura ipotetico-deduttivo-osservativa, la quale, naturalmente, è quella applicata nelle branche più avanzate della scienza empirica. Guidato dalla propria conoscenza dei dati empirici, lo scienziato deve inventare un insieme di concetti, i costrutti teorici, privi di significato empirico diretto, un sistema di ipotesi formulate in termini di questi, e un’interpretazione per la risultante rete teorica; e tutto ciò in una maniera che consenta di stabilire fra i dati dell’osservazione diretta connessioni feconde ai fini della spiegazione e della previsione.
In questa visione, anche la meccanica classica come teoria è “un insieme di concetti […] privi di significato empirico diretto”, né più né meno che la meccanica quantistica. Scendendo più in dettaglio, le due meccaniche hanno entrambe un concetto di stato di un sistema fisico, che contiene l’intera descrizione del sistema a un dato istante, e dal quale (dall’esatta forma matematica del quale) è possibile ottenere tutto ciò che mediante i fili di Hempel si collega all’osservazione empirica.
Sicuramente finché facciamo fisica classica ne siamo meno consapevoli; per fare un esempio semplice quanto significativo, crediamo che l’uso di una variabile reale per rappresentare il tempo sia una diretta descrizione della realtà. Ma basta un minimo di riflessione per accorgersi che così non è, che nella struttura matematica del tempo newtoniano come retta reale sono scritte delle forti assunzioni sulle proprietà fisiche del tempo, che non possono essere ricavate direttamente dall’esperienza. Già il fatto di usare numeri reali lo dimostra, visto che nessun esperimento, nessun orologio, può mai fornire un esatto numero reale per la coordinata temporale di un evento. Ma c’è molto di più, che ora non posso esporre per non uscire troppo dal mio tema.
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Tornando al concetto di stato, nella meccanica classica questo si riassume nella specificazione dei valori delle posizioni e delle velocità di tutte le parti che costituiscono il sistema. Una volta che queste siano date a un certo istante (insieme con la legge di tutte le forze agenti) è possibile prevedere lo stato a qualunque tempo successivo (e anche precedente). È questo il determinismo laplaciano al quale si riferisce Bauman, naturalmente fraintendendolo (almeno nella sua accezione moderna).
In modo precisamente parallelo, anche la m.q. ha un suo concetto di stato: quello che in una versione più popolare è noto come funzione d’onda, e in forma più sofisticata è un raggio unitario nello spazio di Hilbert del sistema. Data la funzione d’onda a certo istante, l’equazione di Schrödinger la determina a tutti gli altri istanti. In questo senso, anche la m.q. è deterministica.
Si vede però che i due stati (classico e quantistico) sono completamente diversi: vengono specificati in modo diverso, con strutture matematiche differenti. In particolare, non esiste nello stato quantistico qualcosa che corrisponda alla posizione classica, e neppure alla velocità (o alla q. di moto).
Data la funzione d’onda, è possibile (in un certo senso) calcolare (prevedere) l’esito di tutte le misure eseguibili sul sistema. Ma dov’è allora la differenza? E dove è finito l’indeterminismo? Vediamo subito: volutamente l’ho tenuto nascosto in quello che ho appena scritto.
Nella meccanica classica, se lo stato è dato a un certo istante (assegnando posizioni e velocità di tutte le particelle) allora sono esattamente noti i valori di queste grandezze (e di qualunque altra) ad ogni altro istante. Questo a prescindere da eventuali errori di misura, e da incertezze eventualmente esistenti sulla conoscenza delle variabili di stato all’istante iniziale: tali incertezze ovviamente si rifletteranno in incertezze sulle previsioni a un altro tempo, ma questo nella visione laplaciana è un accidente secondario, e in linea di principio attenuabile a piacere.
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Qui una parentesi è d’obbligo: la scoperta (ormai vecchia di oltre un secolo, e per inciso precedente alla m.q.) del caos deterministico ha obbligato a una formulazione più cauta, ma non radicalmente diversa, finché si resta nella meccanica classica. Caos deterministico significa che in realtà molti sistemi meccanici appena un po’ complessi (in pratica tutti) soffrono di una sgradevole peculiarità: ogni incertezza sullo stato iniziale, per quanto piccola, è destinata a dilatarsi esponenzialmente a distanza di tempo; il che significa in pratica che lo stato a tempi troppo lontani da quello iniziale diventa imprevedibile.
È forse difficile, per chi non abbia l’adatto addestramento matematico, afferrare l’esatto significato di quanto ho appena scritto, e non mi stupisce che anche in questo campo la pseudo-divulgazione abbia imperversato, ricavandone conclusioni pseudo-filosofiche (se non peggio), tutte puntate verso una supposta “rinuncia della fisica alla possibilità di prevedere il mondo”. E si badi, senza che entri in campo la m.q.: restando nel puro ambito della fisica classica.
Dato che oggi questo non è il mio tema, non voglio dire di più. Mi limito solo a un’osservazione: tutti codesti profeti di sventura ignorano sistematicamente (e dolosamente) che la fisica oggi — e da secoli — sa fare previsioni verificate dai fatti; sa dare le prescrizioni per costruire i più diversi strumenti e macchine, incluse le navicelle spaziali; insomma ha dato prova delle proprie capacità al di là di ogni parata di chiacchiere.
Non voglio che questa venga presa come una presuntuosa manifestazione di scientismo d’antan; solo avanzo l’esigenza che chi si mette a parlare di queste cose sappia di che cosa parla e non tragga in inganno chi lo ascolta.
C’è poi una ragione specifica, e attinente al nostro tema, per sollevare la questione delle previsioni e dell’accordo coi fatti per la meccanica classica anche in presenza del caos: la ragione è che più avanti ripeterò lo stesso argomento a proposito dell’indeterminismo della m.q. Vedremo.
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Dicevamo dunque che in meccanica classica se lo stato del sistema è dato a un certo istante, esso è esattamente prevedibile a qualunque altro istante (determinismo). Ma ho anche detto che la stessa cosa è vera, tramite l’equazione di Schrödinger, anche in m.q. Ci chiedevamo perciò dov’è la differenza.
La differenza sta in un altro punto: in quelle che Hempel chiama le “regole interpretative”. Queste ci dicono in che modo i concetti e la costruzione teorica vengono messi in rapporto coi dati di osservazione. Nella metafora della rete, sono i fili che connettono la rete teorica al piano empirico sottostante. Nella meccanica classica la connessione è semplice: ogni termine del discorso teorico (tempo, posizione, q. di moto, energia …) ha il suo filo che lo connette in modo preciso a un’operazione di misura. Dare lo stato significa conoscere il valore preciso di tutte le grandezze teoriche, e quindi poter fare un’esatta previsione su quale sarà il risultato della misura di quella grandezza.
È qui che la m.q. stabilisce diverse regole del gioco: lo stato (la funzione d’onda) non determina i valori delle diverse grandezze osservabili, ma solo le probabilità che una misura fornisca l’uno o l’altro di tutto uno spettro di valori, caratteristico di quella osservabile. Così ad es. la teoria permette di calcolare con sicurezza quali siano i possibili valori dell’energia di un atomo d’idrogeno (o di qualsiasi altro atomo, ma quello d’idrogeno è di gran lunga il più semplice); ma per un generico stato dell’atomo non ci dice quale sia il valore di tale energia; ci dice solo che se andiamo a misurarla dobbiamo aspettarci di trovare uno di quei valori, ciascuno con una data probabilità.
Non solo: essendo dati i possibili risultati di una misura, e le rispettive probabilità, per ciascuna osservabile è possibile calcolare il valore di una grandezza statisticamente significativa: lo scarto quadratico medio (s.q.m.). È allora possibile dimostrare una disuguaglianza che lega gli s.q.m. di due variabili coniugate (per es. posizione e q. di moto): il loro prodotto non può mai essere inferiore a h/4p. Questa non è altro che una formulazione precisa del PdI, ed è un teorema della teoria, non un principio indipendente. Heisenberg lo sapeva benissimo, tanto è vero che nel libro che ho già citato [4] ne dà la dimostrazione. (Per inciso, proprio per questo motivo numerosi fisici preferiscono non usare il termine “principio”, e adottano piuttosto quello di “relazione d’indeterminazione”).
Se mi sono soffermato su un punto che a prima vista può apparire un dettaglio tecnico (e forse piuttosto astruso) è perché esso getta una diversa luce sul detto PdI, sulla sua interpretazione, sullo stesso significato da dare alla prima parte del libro di Heisenberg: quella dove illustra con diversi esempi perché veramente esista questa limitazione nella precisione delle misure possibili.
Se il PdI è un teorema della m.q., una conseguenza necessaria della sua struttura matematica, ogni interpretazione che tiri in ballo la “possibilità di conoscere” va esclusa in partenza. Occorre invece dire che nella definizione di stato della m.q. è implicito il fatto che non ha senso attribuire a un corpo valori determinati di posizione e velocità (come faceva la meccanica classica); che la limitazione sui possibili risultati delle misure segue dalle regole interpretative, e non è un fatto primario e indipendente. Che è quindi mal posto ogni discorso che faccia derivare questa limitazione (il PdI) dalla “influenza dell’osservatore”.
Ho qui il preciso dovere di dire che questa non è la posizione di Heisenberg, il quale al contrario, nell’introduzione del libro già citato scrive:
In particolare, nella discussione di alcune esperienze, occorre prendere in esame quella interazione tra oggetto e osservatore che è necessariamente congiunta a ogni osservazione.
Sto dicendo che Heisenberg cade in contraddizione? Certamente no: il fatto è che lo status epistemologico del rapporto fra teoria ed esperimento era ai suoi tempi meno chiaro di quanto lo sia oggi, e lasciava spazio a un’interpretazione come quella che Heisenberg sostiene e che poco sopra ho criticato. È anche per questo che nella puntata precedente consigliavo: “chi voglia oggi capire qualcosa della m.q. farebbe bene a non basarsi su autori della generazione di Bohr, e in realtà neppure di Heisenberg”.
Ma c’è di più: come ho già detto, nel suo libro Heisenberg esamina con cura alcuni tipici esperimenti, per concluderne che le leggi fisiche note escludono di poter in alcun modo aggirare la barriera espressa dal PdI. Tuttavia seguendo in dettaglio i ragionamenti di Heisenberg si scopre che in ogni caso il PdI viene giustificato come conseguenza del fatto che … vale il PdI. Può sembrare che il mio scopo a questo punto sia di ridicolizzare Heisenberg; non è così, ma per convincere chi nutra qualche dubbio, debbo pregarlo di seguirmi in un esame un poco più approfondito dei ragionamenti che si possono leggere nel libro.
Vediamo per es. come Heisenberg usa l’esperimento in cui si utilizza un microscopio (il famoso “microscopio di Heisenberg”) per determinare la posizione di un elettrone. L’idea è questa: si manda un fotone contro l’elettrone, il fotone viene diffuso, e tale fotone diffuso viene raccolto da un microscopio, che lo impiega per formare su uno schermo un’immagine dell’elettrone.
Heisenberg osserva che un microscopio ha un potere risolutivo finito, che dipende dal diametro del suo obiettivo; e il fatto che questo diametro sia finito fa sì che non si sappia dove esattamente il fotone lo ha attraversato. Questa incertezza nella direzione in cui il fotone è stato diffuso ha per conseguenza un’incertezza nell’impulso che il fotone ha ceduto all’elettrone, e quindi l’impulso di quest’ultimo riesce indeterminato. Maggiore l’apertura dell’obiettivo, migliore la precisione nella misura di posizione dell’elettrone; ma al tempo stesso maggiore l’incertezza risultante sul suo impulso. Facendo i calcoli, ne risulta proprio la disuguaglianza espressa dal PdI.
E ora diamo la parola a Heisenberg:
il solito gatto di Schroendiger, con tutti i suoi evidenti dubbi esistenziali…
Penso di aver provato che il modo come riassumevo sopra la posizione di Heisenberg non era una caricatura: davvero lui giustifica la validità del PdI per un elettrone col fatto che esso deve valere anche per il microscopio. Dal che si capisce che cosa abbia realmente in mente Heisenberg: non di dimostrare il PdI, ma di mostrare che assumerlo come legge generale della fisica è in sé del tutto coerente; che tale assunzione non può essere confutata con nessuno degli esperimenti proposti, né di quelli comunque pensabili.
In altre parole, Heisenberg sta enunciando una diversa visione del mondo fisico, esattamente un nuovo paradigma nel senso di Kuhn. Come tale, un nuovo paradigma non è riducibile a quello fino allora vigente, e non se ne può dimostrare la validità in termini di quello: si può solo giustificarlo e mostrarne la coerenza interna e la capacità esplicativa.
A distanza di decenni non abbiamo più bisogno di questo: il paradigma quantistico è solidamente affermato (anche se ancora solidamente incompreso fuori dall’ambito di chi lo usa di mestiere). Un atteggiamento ben rappresentativo di chi si muove agevolmente nel nuovo paradigma è quello espresso in QED [6], dove più volte Feynman insiste su un concetto apparentemente paradossale: la m.q. è “strana”, “non si può capire”, “nessuno capisce la m.q”.; e insieme “così va il mondo”, “è questo il modo come stanno le cose”… Che è il suo modo non filosofico per dire: “Vi sto introducendo a un nuovo paradigma, a un nuovo modo di pensare; lo troverete faticoso, controintuitivo, anche assurdo, perché avete un’abitudine radicata a un paradigma diverso. Ma se volete capire certi aspetti della realtà, non c’è niente da fare: è per questa strada che dovete passare”.
* * *
Non vorrei aggiungere altro sul PdI, ma mi restano ancora diverse cose da dire. In primo luogo non ho chiuso il discorso sull’indeterminismo: l’ho sganciato dal PdI, ma l’ho fatto rientrare in ballo quando — parlando delle nuove regole del gioco — ho usato la parola fatidica: probabilità. Dovrei poi dire qualcosa su quello che era un altro cavallo di battaglia ai tempi di Heisenberg: il dualismo onda-corpuscolo. Infine avevo annunciato il tema del successo della m.q. nella spiegazione del mondo e nella costruzione della nuova realtà materiale in cui siamo ormai immersi.
Di tutto ciò in una prossima puntata (e non so se me ne basterà una sola …). Però prima ho in mente di riprendere (salvo imprevisti) la mia conversazione sulla musica, che al confronto sarà — penso — molto più respirabile. Temo infatti che questa puntata sia stata un terribile mattone, ma ogni tanto non posso farne a meno…
[1] M. Sala: “Contesti di co-costruzione delle conoscenze da parte dei bambini”; Naturalmente 17 (2004), n. 4, p. 39.
[2] F. Muratori: “Siamo davvero liberi?” Naturalmente 25 (2012), n. 3, p. 1.
[3] R. Staglianò intervista Zygmunt Bauman: Repubblica, 8–9–2013.
[4] W. Heisenberg: I principi fisici della teoria dei quanti (Einaudi 1948).
[5] C.G. Hempel: La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica (Feltrinelli 1961), p. 46. La scelta delle frasi evidenziate è mia (E.F.).
[6] R.P. Feynman: QED – La strana teoria della luce e della materia (Adelphi 1989).