Guido Pegna
…C’è una ferita nella memoria di un popolo che non può essere rimarginata, quella della vergogna di cui parla Primo Levi sofferta da tutti quelli che sapevano e vedevano, anche se non facevano o non potevano fare…
L’ONU, con la risoluzione 60/7 del 2005 istituiva per tutti gli stati membri il Giorno della Memoria in ricordo della Shoah. Ma già cinque anni prima, con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 la Repubblica Italiana aveva istituito il Giorno della Memoria. Da allora, effettivamente, in parecchie scuole e aule universitarie il 27 gennaio volenterosi interrompono le lezioni per una mezz’ora per fare qualche mesta lettura in rievocazione della Shoah accompagnata da frasi di circostanza, di anno in anno sempre più di circostanza. L’idea in genere è che bisogna conoscere per esorcizzare il fatto che “se è accaduto una volta, può accadere di nuovo”. Sempre più queste rievocazioni stanno diventando delle vuote liturgie che non destano più alcuna emozione o immagine. La parola stessa, Shoah, è assai consumata.
Ma l’articolo 1 della legge del 2000 recita testualmente: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”
Dunque il Giorno della Memoria è sì per ricordare la Shoah, ma non solo e non soprattutto per questo. Quello che appare chiaro nella formulazione della legge è l’accento molto forte e ripetuto su ciò che la determinò e la promosse in campo italiano – in Italia, nella nostra bella e tenera e pacioccona Italia –: è l’accento sulle leggi razziali, sulla persecuzione italiana dei cittadini ebrei, sugli italiani che hanno subito la deportazione e non ne sono tornati, nonché su coloro che si opposero al progetto di sterminio, salvarono altre vite e protessero i perseguitati.
Vediamo nei dettagli quello che effettivamente è successo in Italia, quello che faceva parte del ricordo, (anche la parola memoria è ormai molto logora), dell’effettivo ricordo dei nostri padri e nonni, sia di quelli che “sapevano” e non fecero nulla, che di quelli, italiani, che agirono e lucrarono su quelle sofferenze e deportazioni e morti.
Nella seconda metà del 1938, dopo una battente preparazione con articoli dalla veste pseudoscientifica pubblicati in riviste a diffusione nazionale sulla esistenza delle razze, sulla definizione e superiorità della razza ariana italiana ecc., cominciò ad essere emanata una lunga e intricata sequenza di decreti che culminarono con le leggi del novembre e dicembre 1938 da allora note come “le leggi razziali”. Esse vietavano il matrimonio fra italiani ed ebrei, il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto per tutte le amministrazioni pubbliche e per le società a partecipazione pubblica di avere alle proprie dipendenze personale ebraico, la revoca della cittadinanza italiana ottenuta da ebrei stranieri in data posteriore al 1919, il divieto di iscrivere ragazzi ebrei nelle scuole pubbliche, il divieto alla adozione di libri di testo alla cui redazione avesse partecipato a qualunque titolo un ebreo, il divieto di possedere terreni o fabbricati al di sopra di un certo valore, e moltissimi altri pignoli e spietati divieti. Si istituiva l’obbligo della annotazione nei registri dello stato civile dell’appartenenza alla razza ebraica, come anche nei certificati di diploma e di laurea per gli studenti ebrei che avevano iniziato gli studi prima dell’emanazione delle leggi razziali, ai quali era bensì consentito di terminarli.
Queste furono le leggi razziali. Cittadini italiani che si sentivano italiani a tutti gli effetti, cittadini che non praticavano nemmeno più la religione, che avevano combattuto nella Grande Guerra, italiani che erano professori, direttori di banca, impiegati nelle varie amministrazioni persero il posto e lo stipendio da un giorno all’altro e furono ridotti in breve tempo in condizioni di indigenza. Furono costretti a svendere beni e suppellettili, ad esercitare clandestinamente attività umili. Molti riuscirono a fuggire, con fughe che divenivano sempre più complicare e costose.
Questa fu la forma della persecuzione dei cittadini italiani che avevano l’unica colpa di esistere e di avere un cognome ebraico. Questa persecuzione, da prima in forma puramente amministrativa, come abbiamo visto, divenne in seguito simile a quella che veniva attuata in Germania. Dopo l’8 settembre del 1943, quando l’Italia fu occupata militarmente dalle armate germaniche, cominciarono le deportazioni eseguite al comando di ufficiali italiani verso la prigionia e la morte. Dopo l’istituzione della Repubblica Sociale Italiana, la persecuzione divenne estesa e senza più regole. Violenze fisiche su donne, vecchi, bambini per le strade. E soprattutto l’atroce serie delle delazioni, pagate con il “premio” di 5.000 lire per ogni denuncia. Furono innumerevoli, e in qualche caso fatte anche da ebrei in cambio di promesse di impunità. Trovarono così la via del campo di sterminio molti ebrei ai quali era stato dato rifugio nelle case di famiglie caritatevoli, in conventi cattolici, in sperdute cascine di montagna.
Queste sono le persecuzioni che devono essere ricordate nel “Giorno della Memoria”, persecuzioni di italiani contro altri italiani da parte italiani attivamente e orgogliosamente razzisti, o di grigi esecutori amministrativi, o di delinquenti ricattati dalle polizie, come sempre avviene, così come devono essere ricordate quelle persone di buona volontà che aiutarono e diedero cibo e ospitalità per mesi e per anni ad altri cittadini colpiti da una condanna ingiusta, incomprensibile, offensiva per tutti. C’è una ferita nella memoria di un popolo che non può essere rimarginata, quella della vergogna di cui parla Primo Levi sofferta da tutti quelli che sapevano e vedevano, anche se non facevano o non potevano fare. È una sofferenza che non è stata ancora da noi elaborata perché poco ci è stato detto. Copio qui di seguito la pagina più commovente di Primo Levi, quando descrive la presenza, in quel 27 gennaio del 1945, di quattro soldati russi fermi su grandi cavalli, in alto sulla strada appena fuori dal reticolato del campo di sterminio, una pattuglia dispersa dell’Armata Rossa che stava avanzando. Davanti ai loro occhi mucchi di cadaveri insepolti e pochi scheletri umani ancora in piedi, coperti con le stracciate divise di tela a righe dei prigionieri, barcollanti, morenti, in un mare di neve fangosa di escrementi. Ecco cosa scrive Primo Levi sulla vergogna per la colpa altrui:
“…quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano, apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio; la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia. (da La tregua, Il disgelo, pag. 2 e 3).
Ecco, questa è la vergogna, quella che gli aguzzini, come dice Levi, non conobbero, ma che devono avere provato i nostri genitori, zii e nonni1, e che proviamo anche noi ancora oggi per una colpa che non è redimibile.
1. Per un elenco di persone colpite dalle leggi razziali vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Categoria:Persone_colpite_dalle_leggi_razziali_fasciste.
Fra queste Guido Castelnuovo. Giorgio Bassani, Enrico Fermi, Arnoldo Foà, Rita Levi Montalcini, Gillo Pontecorvo, Bruno Rossi, Emilio Segré.