Giovanna Repetto
recensione al libro “Tracce a esse” di Simona Manganaro, Pathos Edizioni, 2019 “…è un libro che non si finisce mai di sfogliare…”
Il disvelamento della condizione umana è squarciato da lame di poesia che ne ribaltano il senso. È un libro che non si finisce mai di sfogliare, perché è come se ogni volta lo sguardo si posasse su un libro nuovo, su una diversa storia che chiede di essere raccontata.
Sto parlando di Tracce a esse di Simona Manganaro, una raccolta di fotografie accompagnate da brevi riflessioni. L’autrice, genovese per nascita e romana di adozione, lavora come fotografa, filmmaker e aiuto regista. Ha al suo attivo documentari e backstage di film e serie televisive, e la sua sensibilità si è espressa anche in campo letterario. Il suo romanzo Diario di bordo è stato pubblicato da Augh! nel 2017 e il racconto Righetto, vincitore del premio della critica al concorso “Omero” nel 2013, è poi diventato un cortometraggio interpretato da Massimo Wertmüller. La sua attività ha ricevuto importanti riconoscimenti, fra cui il premio “Books for peace” per Tracce a esse.
“Tracce a esse è un percorso. Graficamente la S è una via impervia che richiede svolte repentine e presenza massima nell’accogliere la trasformazione. La S ha un doppio sorriso compenetrato che racchiude il concavo e il convesso, un incontro fra il mondo interiore e l’accoglienza del mondo esteriore”
Ogni foto ha un testo a fronte, fatto di poche parole. Frasi brevi, a volte chiuse e a volte aperte verso la frase successiva. Parrebbero titoli, alcune, ma un titolo definisce il soggetto e lo conclude, mentre qui le parole suggeriscono e alludono aprendosi su orizzonti multipli.
Fra i protagonisti degli scatti, vale a dire delle storie che essi evocano, prevalgono i vecchi, i poveri, i folli. Soprattutto gli esclusi. Una corte dei miracoli che respira tra le pagine offrendo lo spessore di un’umanità dolente. Non c’è giudizio né riscatto, bensì partecipazione.
In primo piano ci sono a volte dei murales, dei quali cui l’obiettivo coglie la vita segreta, i retroscena, la capacità di animarsi nella luce mutevole, la vocazione a farsi linguaggio. Altre volte sono vecchie case, porte chiuse che combinano i silenzi con le speranze, muri che ostentato una fragilità indistruttibile. Il mondo qui descritto è luogo di ossimori non fine a se stessi, bensì ingaggiati in una dialettica che porta lontano. L’orizzonte non è mai raggiunto, il discorso si riapre là dove pareva più chiuso. L’osservato (la scimmia in gabbia) diventa osservatore del ben più strano animale che è l’uomo. I pieni e i vuoti giocano a farsi vie di fuga, spesso ingannevoli. In uno scatto i passeggeri stipati in un autobus appaiono estranei l’uno all’altro, immersi nella lettura dei rispettivi smartphone (Le storie degli altri creano varchi…), nello scatto successivo i sedili sono vuoti (dove si può decentemente sparire). E si gioca anche con il rapporto tra figura e sfondo, attraverso dettagli che si impongono allo sguardo con un atto di forza sovvertendo la banalità del quotidiano. Bellissimi effetti di luce animano le foto in bianco e nero, mentre in quelle a colori, attraverso sapienti elaborazioni, la materia si fa palpabile senza perdere fluidità.
Le immagini che evocano viaggi sono ricorrenti: treni, aerei, stazioni, navi. L’immobilità e il movimento giocano una partita dura. Il cambiamento è rischio e avventura, là dove un ostinato rimanere offre pur sempre l’avventura di una scelta (… Antonio non salì su quel treno né su quello dopo; non li prendeva mai, si limitava ad aspettarli ogni giorno).
Il grande dono che questo libro fa al lettore è quello di condurlo a comprendere che ogni immagine percepita è, in tutto o in parte, una storia. Che lo sguardo è già una forma di narrazione. Che le persone e le cose, ferme o in movimento, non possono prescindere dal raccontarsi. Che tutti noi siamo immersi nel flusso di un racconto perenne.