Dina Lentini
Recensione su tre romanzi di Strout pubblicati in Italia. È convinzione di Elizabeth Strout che la letteratura sia ben più di un conforto, di una strategia di sopravvivenza o di un modo fra tanti per comunicare
E’ convinzione di Elizabeth Strout che la letteratura sia ben più di un conforto, di una strategia di sopravvivenza o di un modo fra tanti per comunicare. Non si tratta nemmeno di semplice gusto estetico, di una manifestazione della propria creatività. Naturalmente la letteratura è anche tutte queste cose, per chi ha talento e desiderio di scrivere. Ma queste definizioni finiscono per essere banali o riduttive, rispetto al punto di vista della scrittrice americana, che crede che la letteratura, oltre a dare piacere, renda la vita magica: scrivere un libro è costruire un mondo fuori dalla realtà, che sembra essere un mondo reale, ma che , nella scrittura non lo è più: un mondo immaginario che il linguaggio plasma rendendo magica la vita di chi contempla la realtà e le proprie costruzioni.
Sicuramente lo spirito contemplativo e il piacere dell’osservazione forniscono alla Strout una base particolare di riflessione che stimola alla costruzione di piani diversi di realtà e alla ricerca in profondità. La stessa Elizabeth rintraccia nella sua biografia, fatta degli eventi semplici di una vita normale, la tendenza a sviluppare un osservatorio a cerchi concentrici, dai dettagli ad insiemi sempre più ampi o viceversa. Scrivere è osservare. Osservare è necessariamente fermare i particolari, scrivere. Scrivere non è altro che scrivere sulla vita che si va osservando ed è, come dice l’autrice con la sua trasparenza e i suoi modi diretti senza paura di apparire retorica, un perpetuo atto d’amore nei confronti della vita.
Consapevole del proprio successo, Strout ha trasmesso di sé un modello di stile semplice e spontaneo, quello coerente con la sua persona. Il riconoscimento del suo valore a partire dal Pulitzer del 2009 e il conseguimento della fama internazionale non hanno alterato la naturalezza di questa donna che sembra uno dei suoi personaggi. Attribuisce il suo successo alla capacità di raccontare sentimenti universali con i quali la gente si confronta normalmente nella propria vita, alla scelta di esprimere emozioni che le persone riconoscono come simili alle proprie anche se nell’esistenza reale non hanno il coraggio di rivelarle.
Lo scavo in profondità nel gioco delle apparenze e degli inganni della vita fa della Strout una scrittrice portata all’indagine e allo studio dell’evoluzione degli eventi e delle persone fino al disvelamento o all’individuazione di una traccia, di una linea, di un destino. Terreno naturale di questo tipo di ricerca finisce per essere il microcosmo del villaggio, della comunità, della famiglia, l’hortus conclusus della vita marginale, periferica, segnato dal conforto e dalla dannazione della vicinanza e della apparente conoscenza reciproca: il luogo dove si nasce e dove ci si aspetta che si debba rimanere, o dove si arriva per qualche plausibile ragione o da dove, a volte, ci si allontana.
Esiste un percorso letterario ampio e complesso che ha privilegiato questo tipo di ambiente, con il suo fascino e le sue perversioni nascoste: da Agatha Christie ad Amos Oz, autori di diversa formazione, cultura e spiritualità hanno scoperchiato l’indicibile di quei rapporti personali che risultano determinati, invischianti, soffocati o pronti a esplodere nel recinto obbligato delle comunità chiuse (dal villaggio di campagna al kibbuz). E non a caso si è parlato di Elizabeth Strout come di una Miss Marple dell’anima.
Ma il Maine descritto dalla Strout ha tante possibili vie di fuga e l’autrice non ha nulla della crudele capacità investigativa del personaggio della Christie: al contrario, le fragilità e le meschinità, le cattiverie della vita sono riguardate dall’autrice americana per quello che sono, manifestazioni naturali e persino necessarie della vita. Da osservare non in sé, ma nella dimensione più complessa di un percorso da comprendere, da osservare con tenerezza e senza moralismi. La vita è così, ma è anche consapevolezza, autoeducazione, slancio, possibilità, speranza. Le vie di fuga, le chanches, sono tante e bisogna crederci.
Nei suoi tre romanzi “Amy e Isabelle” (1998), “Resta con me” (2006) e “Olive Kitteridge”(2008), tutti pubblicati in italiano da Fazi con le belle copertine che offrono particolari dei quadri di Hopper, Strout segue una traccia comune: un’esistenza si sviluppa secondo le linee determinate da una particolare storia personale e familiare, cresce, prende una certa strada, trova il suo modus vivendi, indipendentemente da ciò che era destinata ad essere. Comune ai tre romanzi è la presenza di figure luminose e “ingenue” che si rivelano agli altri e a se stesse, malgrado tutto, come portatrici di speranza e di redenzione. Sono persone rese in qualche modo intoccabili dalla loro innocenza, che scontano comunque un prezzo alto per la resistenza che la loro natura oppone all’ambiente, persone che passano attraverso una consapevolezza amara, ma che non sono vinte. Altre, di diverso carattere, prive di quella solarità che la natura ha loro negato, riescono a recuperare, si evolvono in parte, convivono con le proprie debolezze, scoprono la loro forza, imparano qualcosa.
Pare difficile, a questo punto, fermarsi alla nota malinconica, che pure connota certamente i romanzi della Strout, ma non li definisce: la malinconia è uno dei risultati dell’osservazione, non l’unico. Non si può non rimanere toccati dall’angoscia della solitudine, dagli inganni e dagli autoinganni cui per debolezza giovani o adulti esperti soggiacciono malamente, dalla difficoltà di comunicazione, dalla tristezza della vecchiaia, della desolazione e della perdita vera o immaginata di un figlio o di un compagno. Ma c’è posto anche per altro: per una riconciliazione, un amore tardivo, un impegno nuovo capace di dare senso all’esistenza.
Se la gioventù appare, com’è ovvio, particolarmente esposta, anche gli adulti non se la passano meglio: anni di abitudini, di riti irrinunciabili, di acrobazie difficili che consentivano di restare a galla vanno facilmente in pezzi perché c’è sempre un fattore scatenante che lascia una persona nuda e alla deriva. Un incontro casuale può rivelarsi devastante o essere, alla fine, se si è illuminati dal miracolo dell’intuizione e dall’onestà intellettuale, riuscire salvifico.
In “Amy e Isabelle”, il romanzo d’esordio, Amy è una figlia adolescente che diventa donna, che scopre la sua sensualità e il suo potere incanalandosi verso un modo di concepire la vita segnato dall’erotismo e dalle sue luci ed ombre; Isabelle, sua madre, resiste come può nella costruzione determinata di un decoro piccoloborghese, appena bilanciato da un mondo immaginario di sogni incomunicabili: è altrettanto esposta e fragile quanto la figlia, ma saprà uscire dalla sua immaturità adolescenziale accettando un’evoluzione che le darà serenità.
Tyler, il fantastico protagonista di “Resta con me”, sperimenta, attraverso la perdita e il lutto, prove di crudeltà che gli rivelano l’ingenuità delle sue battaglie e la difficoltà di confrontarsi con il nemico ben più agguerrito di un ambiente sociale ostile, il nemico interno della sua storia personale, dei rapporti con il padre e con la fede. Uomo di chiesa leale, onesto, entusiasta, Tyler si scontra con una comunità ottusa che non gli perdona la sua felicità coniugale, che si scandalizza per il miracolo della bellezza e dell’amore, che chiede altri ruoli alla giovane moglie del pastore, ruoli che lei non può dare. Ma Tyler affronta le cose con serenità. Il lutto e il bisogno di difendere la sua famiglia e le sue scelte finiranno per accelerare la sua crisi personale: il pastore crolla quando l’autoanalisi lo mette di fronte alla debolezza e ambiguità delle sue convinzioni, del rapporto fra i ricordi e la realtà, dei legami con il padre, della sua vocazione religiosa. La svolta consisterà proprio nel lasciarsi andare alla ricostruzione di tutti quei segni, prima ignorati, che compongono la sua storia o perlomeno ad essa si avvicinano. Da questa base, accettando lo scandalo che dà all’esterno e dentro di sé, Tyler potrà farsi aiutare e trovare un altro tipo di amore.
Olive Kitteridge è forse il personaggio che meglio interpreta il punto di vista dell’autrice sull’osservazione della vita che scorre. Costruito con una sapiente tessitura di racconti nel racconto legati da una linea di continuità che può spezzarsi o riprendere con coerenza, il romanzo condensa i temi cari alla Strout: la ricerca infinita della propria identità, il desiderio di sentimenti autentici, l’impatto con l’ambiente familiare e quello più allargato dei rapporti sociali e professionali, il tentativo di esorcizzare, nello scorrere inesorabile del tempo, l’infelicità della solitudine o della malattia, l’angoscia della morte e, naturalmente, la tensione struggente verso l’amore, declinato in tutte le sue forme. Nella trama semplice eppure complessa, che rivela l’importanza e irripetibilità di ogni umile evento della vita quotidiana, Strout dà voce a quella che si può definire l’ansia esistenziale della normalità, la proiezione continua verso un mondo dotato di senso. L’amore è descritto nella sua dirompente e selvaggia carica sensuale, capace di travolgere a tutte le età. Ma è anche amore pacato, costruito attraverso semplicità di affetti che danno tenerezza e conforto a individui maturi temprati dalle esperienze. O diventa amore di un ordine, di una legge, di un fato che si traduce nello slancio verso la trascendenza, il sacro. Olive, con le sue furie e le sue debolezze, è una donna sola con se stessa, temuta dagli altri, colta, con un suo ruolo prestigioso nella comunità, eppure soggetta a tutti i difetti, ma anche a tutte le risorse, di quella comunità che è lo specchio della sua anima. La sua capacità di osservazione e di riflessione la porteranno, ormai in tarda età, ad accettare eventi sopraindividuali: la malattia umiliante e poi la morte di un uomo buono, il marito, la rottura con un figlio che deve essere lasciato andare, la realtà ineludibile delle proprie emozioni.
Olive troverà una sua saggezza trasformandosi e ristrutturando se stessa alla fine della propria vita: ma anche allora può esserci un tempo e uno spazio per il desiderio e la possibilità di soddisfarlo.
Strout fa ruotare intorno a Olive una serie di personaggi indimenticabili: come negli altri romanzi i pregiudizi e le crudeltà delle periferie urbane e rurali sono il banco di prova di tanti individui diversi e dal destino diverso che compiono il loro apprendistato interminabile sotto un cielo a volte implacabile a volte disteso e luminoso, sullo sfondo di una natura che è affascinante, ma anche insidiosa e cangiante come la vita.
Dotata di una capacità raffinata nella costruzione di atmosfere, Elizabeth Strout utilizza una scrittura limpida e colta, aliena da minimalismi cui il genere di narrazione avrebbe potuto portare e da sperimentalismi artificiosi: anzi, si tratta di uno modulo narrativo classico che ha le sue basi nella grande tradizione della letteratura americana e che permette, con uno slancio sempre vivo, la descrizione della realtà in tutte le sue sfaccettature, la costruzione di una storia appassionante.
Torre degli Ulivi, 7 settembre 2012
Dina Lentini
Elizabeth Strout, “Amy e Isabelle”, Fazi Editore 2010
“Resta con me”, Fazi Editore 2010
“Olive Kitteridge”, Fazi Editore 2009
Interviste a Elizabeth Strout presenti in rete: