Dina Lentini
anche le recensioni fanno parte del narrare…
Da sempre il lavoro legato alla scrittura è stato affiancato da un impegno costante nell’attività di studio e di critica
Da sempre il lavoro legato alla scrittura è stato affiancato da un impegno costante nell’attività di studio e di critica, indispensabile non solo per la formazione del narratore, ma, diciamo, anche per la sua crescita sul piano pubblico e per la sua spendibilità editoriale, accademica, commerciale.
Ma, appunto, si tratta in genere di un intervento laterale: chi desidera scrivere per sé necessariamente si trova costretto ad allargare la propria immagine con articoli, saggi, interviste, recensioni che riguardano gli altri.
La recensione, poi, salvo gli interventi specifici di informazione libraria nelle riviste specializzate, cartacee o sul web, sembra a volte destinata ad essere relegata in un angolo modesto: nomi affermati, il cui intervento fornisce alla rivista o all’evento organizzato una firma sicura, spendono poche essenziali parole per gli altri.
Spesso sbrigativa, in genere prudente, la recensione, elogiativa o stroncante, riduce il libro ad un piccolo oggetto di cui si fa la reclame e che occorre andare a scartare. Del resto, è questo l’effetto che si vuole ottenere. Ma capita che alcune recensioni somiglino sempre più a quelle schede che gli insegnanti assegnano come compito agli studenti liceali: corrette, impostate con una breve nota informativa sull’autore, finalizzate a individuare trama e fatti salienti o tesi di fondo del lavoro nella parte centrale, chiuse con commento che deve rassicurare il docente sulla informazione adeguata dello scrivente circa valutazioni critiche date dell’opera, nonché sulla capacità di giudizio personale.
Ciò detto, ho naturalmente letto splendide recensioni che hanno confermato o meno, spesso risultando illuminanti, quanto già sapevo dell’autore e del libro in particolare. Tuttavia…
Quando voglio o devo scrivere una recensione è come se davvero scrivessi per me, un racconto o frammenti di riflessione o bozze di un lavoro che ho in mente.
Mi piace immergermi nel libro che ho già letto e ricomincio sfogliandolo qua e là a seconda di quello che ricordo, delle immagini o delle frasi che magari mi avevano colpito, che forse non mi erano neppure piaciute o al contrario mi avevano esaltato.
Poi ci penso, a volte basta un giorno, altre qualche giorno o qualche mese. Tanto, non devo inseguire nessuno. E se nel frattempo qualcuno avrà già scritto da qualche parte proprio quello che avevo in mente, pazienza.
In genere conosco già l’autore, per averne a suo tempo studiato i testi o letto le opere, a volte lo scrittore è una persona di cui sono amica o conoscente che mi ha regalato una copia del libro e mi ha chiesto di scrivere qualcosa da veicolare sul mio sito. Spesso è un incontro nuovo, una scoperta.
In situazioni così diverse, c’è sempre per me il piacere di provare cosa ricordo, inseguire un’idea consultando velocemente, o lentamente, i libri che ho a disposizione nella mia biblioteca, fare i conti con una prima valutazione che mi appare poi superficiale e che va accantonata o forse rivisitata o confermata. Mi diverte. Cambio parere e un’altra strada, cui non avevo pensato, mi si apre.
Se possiedo tutta l’opera di un narratore, e in genere è così se l’autore mi piace, salgo fino ai ripiani delle librerie dove so di trovare quello che mi serve e faccio una prima cernita leggendo lassù seduta sull’ultima base della scala. Magari mi impolvero, ma tutto il mondo, che conoscevo parola per parola e che al momento appare annebbiato, riemerge improvvisamente o continua a nascondersi.
Quando ho recensito “Di seta e di sangue” del mio amato Qiu Xialong, uscito lo scorso anno per i lettori italiani (Marsilio 2011 E.18,50) naturalmente avevo in mente tutti gli altri libri di questo straordinario scrittore cino-americano. Subito ho riconosciuto la coerenza con quanto avevo già letto e mi è parso come la tappa di un percorso. Ma per la recensione cercavo un incipit che condensasse la mia idea di base e la mettesse alla prova poi nello sviluppo del discorso. Il piacere che mi ha dato scrivere questa recensione in particolare è stato proprio tutto nella ricerca di quella prima idea, nell’inseguimento delle tracce che erano già sparse negli altri gialli ideati da Xialong e che riletto per convalidare quell’ipotesi.
Non sempre funziona così, naturalmente. Un libro che in prima lettura mi ha lasciato indifferente e che, riletto e rimeditato mi ha in qualche modo aperto gli occhi ribaltando il giudizio iniziale, mi dà un’enorme soddisfazione. A questo secondo tipo di esperienza appartiene il romanzo di Guido Pegna, “Una strada per Nebida”(effequ, 2011 E.12). L’ho avuto in mente per qualche mese e alla fine la suggestione del libro mi ha conquistata e ho rintracciato il filo conduttore che avevo intuito ma che restava in qualche modo latente, come se mi sfuggisse.
Questo è per me il piacere della recensione: l’inseguimento di tracce e, alla fine, la costruzione di un punto di vista che non sapevo ancora immaginare. Come accade quando scrivo per me, quando scrivo un racconto.
Parte fondamentale di questo piacere è proprio il non sapere in anticipo dove si andrà a parare, il permettere che le impressioni lievitino fino a determinare un andamento imprevisto della storia, lasciare sedimentare, affondare o riaffiorare una tesi che va comunque verificata con i testi e con i propri sentimenti. Mentre per il racconto ho il vantaggio di non avere limiti, la recensione esige comunque dei parametri o è altra cosa. Ma in fondo anche qui posso permettermi di scavalcare i paletti imposti dalle regole editoriali: se il discorso diventa troppo lungo, se la recensione tende a diventare uno studio, un piccolo saggio, magari per questo poco pubblicabile secondo le regole tradizionali, poco importa.
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