Nino Martino, Giuseppe Milanesi

è possibile costruire un corso di fisica partendo da alcune esperienze fondamentali, utilizzare una sorta di cooperative learning in laboratorio, arrivare a un livello formale elevato e terminare il programma nei tempi stabiliti?

Il laboratorio del Liceo Internazionale di Zuoz

Esiste un problema nell’insegnamento della fisica a livello liceale: i risultati, levate le solite eccezioni, sono disastrosi: gli studenti, se raggiungono in qualche modo la sufficienza, a distanza di un anno non ricordano praticamente niente, non sono in grado di affrontare un qualunque problema, non riescono a studiare autonomamente un nuovo argomento di fisica.

Si sono già scritti fiumi di inchiostro su una presunta degenerazione psicofisica delle nuove generazioni della razza umana e sulla impossibilità di un insegnamento serio alla gioventù perduta nel mare di internet, dei tablet, delle troppe distrazioni. Una gioventù incapace di concentrarsi su qualunque cosa per più di dieci minuti, incapace di faticare per lo studio, incapace di apprezzare la bellezza formale della teoria e di sbavare felici davanti alla stupenda eleganza delle equazioni di Maxwell in forma integrale o differenziale.

Noi non crediamo molto in questo, la nostra esperienza didattica, ancora frammentata, ancora poco organica e coerente ci dice il contrario.

La società è cambiata assai velocemente, dirlo è oggi una ovvietà. La velocità di comunicazione, nelle nuove forme di questo inizio secolo, è spaventosamente accelerata. Oggi appaiono nuove forme di crescita della conoscenza che assumono una apparenza collettiva. La rete sta permeando la società a molti livelli.

Mettiamo le mani avanti, non siamo dei fanatici della rete, non pensiamo che la rete risolva tutto, non pensiamo che parlare insieme con molti e in tutte le parti del mondo porti di per sé ad un approfondimento, che cortocircuiti la necessita dello studio individuale e della ricerca. La rete, e la velocità di comunicazione da’ solo possibilità.

Associato a questo è cresciuto un problema che riguarda l’autorità o la autorevolezza o il riconoscimento del valore.

Una volta le cose erano chiare: c’era il professore e c’era lo studente. Il professore era una autorità per il fatto semplice di essere messo nel posto di professore, e lo studente doveva studiare perché era studente, magari senza motivazione, magari senza reale apprendimento, ma non c’erano altre possibilità.

Appare chiaro, pensiamo che debba apparire chiaro nella esperienza attuale di tutti noi, che il professore oggi è una autorità solo se sa fare il professore, solo se sa motivare la crescita della conoscenza, solo se lui stesso ha passione per la conoscenza nel suo campo.

Insieme a questo, immerso in questo mare fluido e un po’ nuovo, emerge con forza il problema del metodo, di come si fa ad insegnare la fisica (stiamo parlando della fisica e non osiamo, anche se ne siamo tentati, di fare ulteriori generalizzazioni).

Se la fisica è un insieme di formule scritte alla lavagna da uno che dice che così si capiscono le leggi della fisica e che bisogna studiarle per avere dei buoni voti forse siamo nel caso – dal punto di vista degli studenti – di una ricerca di psicologia di molti anni fa. A un campione abbastanza numerose veniva dato da studiare a memoria un certo elenco di parole formate con sillabe senza senso. Quando il gruppo era capace di ripetere a memoria le parole senza senso si faceva passare del tempo. Dopo quattordici giorni (quattordici giorni!) statisticamente veniva ricordata solo la metà delle parole, dopo un mese si era arrivati quasi zero. Certo, è una estremizzazione. Le formule della fisica sono collegate tra di loro, formalmente, quindi c’è la speranza che la memoria sia più efficace. Ma perché insegnare così? Soprattutto oggi?

In realtà la fisica del gessetto (così alcuni l’hanno da sempre chiamata) non ha mai funzionato molto, non è un fenomeno solo contemporaneo. Ma in altri tempi l’inefficienza veniva mascherata e coperta dal dovere e dall’acquiescenza all’idea diffusa più allora che oggi, che la teoria è bella in sé, che la fisica è una scienza senza discussione o dibattito.

Gli studenti fatti dieci esercizi simili non riconoscono che l’undicesimo è simile. Se si chiede di risolvere una equazione del tipo ax+b=c dove al posto di a, b e c si mettono delle espressioni numeriche complesse, sbiancano in viso e dicono che non lo sanno assolutamente fare. Perché?

Quando uno si chiede perché deve darsi una risposta seria, cercare di capire veramente il problema, scartando magari le risposte facili del tipo “degenerazione neuronale” oppure “maledetta società d’oggi”. Oppure pensare che tutto ciò avvenga per mancanza di tempo. E’ divertente (in senso amaro) vedere moltiplicare le ore di matematica e di fisica, proliferare corsi di recupero di ore e ore ottenendo sempre lo stesso risultato, ovvero il disastro. Se la pratica ci dice che non è un problema di degenerazione neuronale (accertabile con esami psicofisici) e non è un problema di ore (perché il numero di ore non risolve) allora ci deve essere una qualche altra risposta, magari di più faticosa realizzazione, che richiede assai più lavoro, ricerca, esperimenti.

Se insegnare fosse un lavoro come un altro sarebbe semplice. Io so le cose (almeno, si spera), vado in classe dico le cose che so e se tu capisci bene se no sei deficiente o svogliato.

Il metodo che proponiamo non è una invenzione nuova. Frammenti si trovano sparpagliati in tutti i tempi, con diversi “sapori”, tentativi vengono fatti dappertutto e piccoli successi didattici, con questo metodo, sono avvenuti, anche in passato. Ma erano cose che avvenivano all’interno di un’aula, tentativi isolati, che proprio perché fruttuosi, non potevano venire generalizzati senza mettere in dubbio un sistema, una rigidità, una negazione di vera conoscenza.

Abbiamo scelto di mostrare il metodo non con un lungo discorso (non se ne può più) ma facendo vedere la lunga preparazione degli esperimenti, con la previsione delle possibili varianti e diramazioni, per quanto sia possibile farlo senza la classe reale davanti, perché già nella preparazione del corso viene usato, a diverso livello, lo stesso metodo che si porterà poi in classe. Poi avverrà il tentativo di realizzare nella classe reale quello che è stato programmato e di questo pure daremo reports per quanto possibile fedeli – nel bene e nel male – e infine daremo i dati statistici dei risultati che speriamo siano positivi come in altre occasioni (ma che in questa saranno esplicitamente monitorati). Siamo certi che il corso prenderà pieghe diverse a seconda della classe, si svilupperanno di più certi punti, altri esperimenti nasceranno. Alcuni esperimenti verranno affidati agli studenti (con la guida, ovviamente) e probabilmente verranno fuori cose impreviste, che richiederanno da parte nostra una certa quantità di studio e di approfondimento.

Ma nell’ambito di questa premessa alcune cose le possiamo dire. Partendo come qualche volta si fa, o si faceva, dalla critica dell’esistente.

Quando si parlo di insegnare la fisica insieme al laboratorio di fisica ci sono diverse “scuole filosofiche”, esaminiamone alcune per prenderne la distanza.

 
– Insegnare la fisica senza laboratorio. Assai più comune di quanto non venga dichiarato. Le motivazioni sono molte. La più comune è che il laboratorio è una perdita di tempo, perché le cose non funzionano mai, perché è difficile tenere la disciplina, perché non c’è strumentazione (in realtà presente e ammassata in armadi nascosti ad ammuffire, o per esigenze di spazio messa in … cantina)
E questo, ovviamente, si risolve in una enorme perdita di tempo. Insegno un argomento, faccio il compito o le interrogazioni, scopro che nessuno ha seguito, rispiego, nessuno capisce, faccio corso di recupero, tutti annaspano, il tempo finisce e al terzo anno non si riesce ad arrivare all’energia.

– Insegnare la fisica usando il laboratorio “dimostrativo”. Avviene un capovolgimento di quello che è la ricerca scientifica: faccio una teoria, poi mostro alla classe un esperimento che verifica che quello che ho detto è proprio giusto, Se poi non viene proprio quello che dicevo dovesse venire, be’, sapete, ci sono gli errori strumentali, oppure gli strumenti non funzionano bene – però vi giuro che quando ho provato il risultato era quello giusto, credeteci.
L’impressione che si da’ della scienza è che sia una cosa definitiva, chiusa, certa. Gli studenti apprendono la paura di dire cose sbagliate. Di fronte alla verità non c’è scampo, non c’è possibilità di fare ipotesi magari fantasiose, immediatamente arriverebbe la scure – non dire stupidaggini.
Anche qui c’è una notevole perdita di tempo. Qualcuno si è mai chiesto perché gli studenti si annoiano mortalmente in un laboratorio del genere? Non stiamo dicendo che bisogna essere divertenti ma che bisogna fare cose interessanti, e che per fare cose interessanti (che catturino l’interesse), bisogna dare la possibilità di intervenire, di poter chiedere “e che succederebbe invece se….” di eliminare la paura di dire cose sbagliate
– insegnare la fisica con il laboratorio a schede. Si fanno le lezioni, poi si va in laboratorio, gli studenti si dividono in gruppi di lavoro (wow!) e si trovano davanti degli strumenti e delle schede prestampate, in cui c’è la descrizione dell’esperimento con la legge da verificare. C’è nei casi peggiori addirittura una tabella con le variabili da misurare, l’operazione da fare con queste variabili, la formula per calcolare l’errore e lo spazio per il risultato finale. A beffa qualche volta viene lasciato uno spazio bianco per eventuali commenti. Se il proprio piano di lavoro prevede tot ore di laboratorio sul totale non c’è che da esserne soddisfatti. Sia detto per inciso, in molti programmi internazionali dell’insegnamento della fisica, a livello europeo, è esplicitamente vietato di procedere con un laboratorio così fatto
– insegnare la fisica con lo spettacolo. E’ già molto meglio. Si fanno vedere effetti strani, curiosi, clamorosi, divertenti, che in realtà hanno un bel po’ di fisica dietro. Poi si spiega il fenomeno in base alla teoria fisica, o si spiega la teoria che permette di capire il fenomeno. Manca ancora, secondo noi, un pezzo e lo faremo vedere (speriamo), ma certamente qui l’interesse è catturato, non ci sono problemi di disciplina e le cose si ricorderanno almeno un poco. Forse è più adatto a un seminario piuttosto che alla quotidianità di un corso, ma se ne può discutere.

E se invece…

E se invece si mostrasse un fenomeno e si chiedesse agli studenti di dare delle ipotesi sul perché avviene in quella maniera? Ipotesi, non risposte. Le ipotesi non sono né giuste né sbagliate, sono ipotesi. E le ipotesi vanno verificate. Se uno studente fa una ipotesi strana (ne vederete di molto “belle” nei reports che pubblicheremo in queste pagine) non lo si deve tacitare, dicendo “no, non è così, acqua, acqua” oppure “non ci siamo ancora, fuochino, fuochino”. Bisogna fare una cosa assai più difficile: bisogna dimostragli con un esperimento o qualche cosa del genere che l’ipotesi non corrisponde alla realtà. Nel far questo si riesce a dare un legame effettivo tra teoria e realtà e pratica sperimentale. Come pensate che si faccia effettivamente ricerca? Questo può provocarci a volte un notevole imbarazzo: noi sappiamo che non è così ma non riusciamo ad immaginare un esperimento un motivo per cui quella ipotesi non è corretta. In genere quello che succede dopo un imbarazzo iniziale degli studenti (ma che razza di domande fa il prof? Perché non ci da’ lui la spiegazione, se la sa? )- le abitudini ben inculcate sono difficili a morire – incomincia una ridda di ipotesi, di curiosità, l’interesse è catturato, le spiegazioni teoriche necessarie (a un certo punto sono generalmente necessarie) sono seguite e soprattutto ricordate.

Il livello formale può anche essere elevato e magari si riesce anche a far vedere una cosa molto bistrattata nella concezione comune, e cioè che una maggiore astrazione permette di capire molto meglio le cose, di essere veramente concreti. Diciamola questa eresia rispetto al senso comune: per essere veramente concreti bisogna essere astratti. Questo metodo non è fatto per praticoni, che pensano che tutto possa essere risolto con la pratica, ma è fatto per teorici che amano comprendere – e fare comprendere – da dove nasce e come si sviluppa la loro teoria.

Speriamo di mostrarvi con i reports successivi, scritti “in tempo reale” cosa intendiamo con le parole scritte qui sopra.

Credits

Come è noto tutti hanno dei Maestri, Noi ne abbiamo alcuni che ci hanno dato molto, con la loro passione e il loro sapere critico. Li citiamo in ordine sparso per non fare un impossibile ordine di importanza: Mario De Paz e Miranda Pilo del dipartimento di Fisica di Genova, Elio Fabri del dipartimento di Fisica di Pisa, Guido Pegna e il suo incredibile laboratorio del dipartimento di Fisica di Cagliari.

Chiediamo loro scusa se magari non si riconosceranno affatto nelle cose che diciamo o che facciamo. Uno dice che ha tratto ispirazione dal Maestro e poi fa una cosa irriconoscibile. Abbiate pazienza, ma fa parte del metodo…

il cannone elettromagnetico

un problema di conservazione dell’energia

carrellini e palline

Note laterali – l’anello saltatore e nuove storie

Postscriptum: e se insegnare non fosse un lavoro come un altro?

Come calcolare l’effetto dell’attrito volvente

Una critica costruttiva al lavoro di Giuseppe Milanesi e Nino Martino

Che cosa è il rigore logico in fisica?

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