di Roberto del Piano
Ottobre 1969, Milano, Teatro Lirico (ormai chiuso da tempo immemorabile).
Sono seduto nelle ultime, scomodissime, file della balconata, il posto che io e un paio di amici, che sono con me, abbiamo potuto permetterci.
Siamo venuti per il quintetto di Miles Davis, un Davis che ha da poco registrato Bitches Brew, il disco della rivoluzione “elettrica”, di cui avevo sentito parlare, non ancora uscito in Italia; si annuncia con un quintetto formidabile: oltre a lui Wayne Shorter al sax, Chick Corea alle tastiere, Dave Holland al contrabbasso e Jack De Johnette alla batteria.
Concerto stellare, indimenticabile. Miles è la star della serata ma come sempre – ne farò un’esperienza diretta non del tutto piacevole – pretende di esibirsi per primo.
Dopo di lui un artista meno attrattivo per il pubblico (e anche per me), del quale ho acquistato tempo prima un disco, Unit structures, fin troppo ostico per i miei gusti di allora, tanto è vero che se ben ricordo ne avevo ascoltato solo la prima facciata. Un lavoro registrato in un giorno solo, il 19 maggio 1966, i mezzi sono quelli che sono, anche se l’etichetta che lo pubblica è prestigiosa (Blue Note), con un gruppo comprendente, con altri, i compagni di allora e per molti anni a seguire, il saxofonista Jimmy Lyons e il batterista Andrew Cyrille.
Entrambi i musicisti sono presenti a Milano, assieme a un altro saxofonista di rango, Sam Rivers, che per poco tempo aveva fatto parte proprio del gruppo di Davis.
Cecil Taylor (è di lui che parlo) inizia una prestazione indiavolata e ipnotica, assalendo il pianoforte con furia selvaggia ma anche con agile grazia di ballerino, coadiuvato efficacemente dai suoi partner. Io resto affascinato da quello che succede, inchiodato alla poltroncina e concentrato su quanto sta avvenendo sul palco; parte del pubblico comincia a fischiare rumorosamente contestando il pianista, ma la maggioranza degli spettatori reagisce applaudendo freneticamente per esprimere il suo sostegno; anche io mi spello le mani.
Tornato a casa riascolto molte volte Unit structures fino a capirne in qualche modo la tessitura estremamente complessa, al punto da sembrare a prima vista un caos informe.
Qualche anno dopo mi capita l’occasione di dividere il pomeriggio e la serata – è il giugno 1975, è in corso il Festival Nazionale de L’Unità a Firenze – proprio con Cecil Taylor, Jimmy Lyons e Andrew Cyrille. Io sono lì come membro del trio del pianista Gaetano Liguori, il quale è terrorizzato all’idea di misurarsi, anche se indirettamente, con Taylor; a me, bassista, accadrà poco dopo la stessa cosa con Charlie Mingus. Avere la possibilità di parlare con Cecil Taylor scambiando informazioni musicali e vederlo provare con i suoi partner sono esperienze fondanti; tra le altre cose percepisco il suo modo di asciugare le frasi musicali fino a eliminare ogni orpello non necessario, cosa che rende il suo pianismo estremamente denso ma anche di difficile decifrazione. E l’altro aspetto del suo approccio, quello di considerare il pianoforte uno strumento a percussione con ottantotto (i tasti del piano) tamburi accordati.
Un passo indietro. Cecil Percival Taylor nasce a New York il 25 marzo 1929, figlio unico di una famiglia nera della classe media, in grado di superare senza gravi traumi l’incombente grande depressione. È incoraggiato a studiare musica sin da bambino e si avvicina al pianoforte a sei anni, prima al New York College of Music, poi al New England Conservatory di Boston, dove si diploma in composizione a arrangiamento.
Inizialmente lo attraggono soprattutto i pianisti con un approccio percussivo alla tastiera, a cominciare dai maestri del boogie-woogie; successivamente grandissima influenza hanno Thelonious Monk, Duke Ellington (brani del quale compaiono spesso nei primi dischi di Taylor, da Azure a Things ain’t what they used to be), ma anche il bianco Dave Brubeck, del quale lo affascinano i riferimenti ai compositori europei del Novecento.
Nel 1955, rientrato a New York, fonda il suo primo quartetto, che comprende il saxofonista Steve Lacy; nel 1956 pubblica il primo disco a suo nome, Jazz advance; nel 1957 è invitato all’importante Newport Jazz Festival; nel 1958 incide il disco Stereo Drive, con al suo fianco John Coltrane (in seguito, per motivi commerciali, ripubblicato come Coltrane time).
A partire da questo momento il suo approccio al jazz produce una musica sempre più complessa, che lascia sconcertati spettatori e, soprattutto, proprietari di club e organizzatori di concerti che ritengono il suo stile non conveniente in termini monetari.
Per il pianista sono anni difficili, che si riflettono anche in un approccio sempre più radicale: le sue performances, nelle quali colpisce furiosamente i tasti del piano con dita, pugni e avambracci, sono talmente fisiche da spostare la musica su un altro piano esistenziale. Una cascata in piena, un vulcano in eruzione, brezza sull’oceano, tempesta nel deserto, foglie al vento.
Per diversi anni si dedica all’insegnamento, poi, a partire dal 1973, conosce un nuovo interesse da parte di pubblico e organizzatori, sia da solo sia con piccoli gruppi nei quali avrà come partner principale il saxofonista Jimmy Lyons, che morirà prematuramente nel 1986, e al quale Cecil Taylor dedicherà uno dei suoi dischi di piano solo più emozionanti, For Olim, registrato dal vivo quell’anno a Berlino durante il “Workshop Freie Music”.
Da allora una straordinaria carriera fatta di memorabili performances – come quella che nel 1988 lo vede impegnato per un intero mese, ancora a Berlino, a dialogare, con importanti musicisti americani ed europei, in una lunga serie di concerti – e di altrettanto memorabili incontri: l’anziana pianista Mary Lou Williams nel 1977, il batterista Max Roach nel 1979, l’Art Ensemble of Chicago nel 1984, fino a tre splendidi concerti tra il 2000 e il 2003 (Ruvo di Puglia, Parigi e Sant’Anna Arresi) con l’Italian Instabile Orchestra.
Intellettuale di lucidità straordinaria, ha affermato la sua arte fra mille difficoltà, portandola avanti per decenni senza nessun compromesso né concessione.
Cecil Taylor ci ha lasciati il 5 aprile 2018, pochi giorni dopo aver festeggiato il suo ottantanovesimo compleanno. Con lui se ne è andata una singolare e coraggiosa figura di nero, omosessuale, marxista e artista votato alla dissoluzione delle regole, che ha combattuto tutta la vita contro pregiudizi, ignoranza e ristrettezza di vedute nella convinzione che un mondo migliore, anche musicalmente, è possibile.
Nota della redazione: qui di seguito un video, Cecil Taylor – Jazz Ost-West Festival 1984 (fragm.)
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