Nino Martino
Fu tutta colpa di mio padre se divenni un professore di matematica e fisica e uno scrittore di fantascienza.
Fu tutta colpa di mio padre se divenni un professore di matematica e fisica e uno scrittore di fantascienza.
Con due effetti collaterali nel mio rapporto con il resto dell’umanità.
Primo effetto collaterale: il raggelo. Quando qualcuno mi conosce e si mette a chiacchierare con me in genere mi trova gradevole, socievole, adeguatamente auto ironico e di amabile conversazione. A questo punto mi chiede che lavoro faccio. È la solita domanda per il solito disperato tentativo di inquadrare lo sconosciuto, trovare punti in comune, sintonia.
– Faccio il professore (ora dovrei rispondere facevo il professore).
– Ah, bello. E professore di che?
– Matematica e Fisica.
Il gelo è praticamente istantaneo.
– Ah, ecco.. Io non ci capivo niente. – sorrisetto imbarazzato. – pensavo lettere, o filosofia.
Secondo effetto, di delusione.
– E poi scrivo.
– Ah, che bello. E cosa scrive?
– Scrivo fantascienza.
– Ah, ecco. Lei scrive di fantascienza.
E tutti immaginano mostriciattoli verdolini con lunghe antenne pendule. Spade laser e battaglie spaziali.
In entrambi i casi è una reputazione rovinata. Peccato. Sembravo così simpatico. Un umanista. Invece ero un arido matematico-fisico e per di più perdevo tempo a scrivere stupidaggini fantascientifiche.
Come dicevo fu tutta colpa di mio padre. E uno potrebbe pensare che mio padre fosse un professore a sua volta, o un fisico, che mi avesse forgiato e trasmesso chissà che cosa.
Ma mio padre aveva l’avviamento commerciale, che allora era un ramo laterale della scuola media.
Veniva dalla Sicilia, era emigrato a Genova e lavorava alla Prefettura.
Aveva una colpa fondamentale nei miei confronti: era aperto, curioso, mi stimolava in ogni modo a guardare il mondo che avevo intorno. Facevamo ogni giorno lunghe passeggiate sui monti di Genova, in campagna. Avevamo escogitato insieme un trucco per catturare gli insetti: con un contagocce prendevamo da una boccettina dell’alcool. Una goccia sull’insetto malcapitato e questo si paralizzava istantaneamente e finiva in una collezione che tenevo.
Mi aveva insegnato trucchi per catturare le farfalle e a riconoscere erbe e fiori.
Mi dava carta bianca, sempre.
Una volta volli fabbricare un fumogeno. Avevo osservato che lo zucchero sulla cucina economica (la mitica cucina economica) emetteva fumo.
Quindi se io mescolavo del petrolio a dello zucchero, il petrolio bruciando avrebbe fatto fumo per via dello zucchero.
Mio padre non era una persona “normale”. Invece di impedirmi l’esperimento comprò una boccettina di petrolio. Andammo in campagna, mescolammo lo zucchero al petrolio e cercammo di accendere il tutto.
Non ci riuscimmo. Il petrolio da solo bruciava, ma con lo zucchero aggiunto non bruciava più. L’esperimento era fallito ma non capimmo mai perché.
Solo molto tempo dopo appresi il trucco. Durante l’invasione dell’Ungheria da parte dei carrarmati sovietici i rivoltosi mettevano zucchero nel tappo della nafta dei carrarmati e i carrarmati si fermavano.
C’è una reazione chimica particolare.
Insieme allora fabbricammo del carburante solido per razzetti, mescolando perclorato di potassio ( pillole vendute allora per il mal di gola, macinate fini…) con zucchero. Un grande successo.
Lui non sapeva a priori darmi delle risposte, ma insieme facevamo … “ricerca”, chiedendoci il perché delle cose. Era il fascino della scoperta, della scoperta condivisa.
Questo è l’aspetto fondamentale per un prof, per un insegnante. Se voglio insegnare ma non ho il fascino della scoperta, il fascino di condividere la ricerca, come posso appassionare qualcuno? Non è necessario sapere tutto. Anche il migliore insegnante NON può sapere le risposte a tutte le cose. Anzi questo funziona in modo negativo. La presunzione di sapere tutto e di avere le risposte ad ogni cosa è deleteria. E nello stesso tempo pensare che la propria autorità derivi dal fatto di saper dare risposta a ogni domanda dello studente porta inevitabilmente al disastro. La prima volta che fai un errore sei perduto.
Per colpa, dunque, di mio padre in seguito ebbi sempre una grandissima autorità presso i miei studenti (fin troppa, e a volte dovevo ricorrere a dei trucchi per per autolimitarla, ma di questo vi racconterò più avanti).
Ricordo ancora le mie primissime lezioni.
Una scuola privata di Genova, in via San Vincenzo (ora non esiste più). Era un incarico annuale ed ero in attesa dell’incarico statale. Feci solo pochi giorni e poi ebbi subito l’incarico nella scuola pubblica.
La direttrice di questa scuola privata mi fece un’ispezione in classe, per vedere com’era questo giovanissimo insegnante di fisica, che era anche barbuto (erano le prime barbe folte e incolte, si era nel ‘69).
Entrò e rimase sbalordita a fissare la scena. Io ero in piedi su un banco, con tutti gli studenti affollati attorno e stavo agganciando un lungo pendolo fatto con corda e un peso al lampadario.
Perché, infatti, descrivere come è fatto un pendolo invece di costruirne uno con gli studenti, inventando con loro maniere pratiche? Poi si sarebbero scoperte insieme cose come periodo, dipendenza del periodo dalla lunghezza e cose così. E si sarebbero scritte le formule.
La direttrice rimase a fissare me sul banco e io la salutai. Fissò gli studenti che erano disciplinatissimi e affascinati e completamente coinvolti. Credo che non avesse mai visto una cosa del genere. Ma che poteva dire? La cosa era completamente anomala, ma non era una stupida: stava evidentemente funzionando e tutti parlavano entusiasticamente di questo giovane barbuto.
Fu persino dispiaciuta quando abbandonai per la scuola pubblica.
L’altra colpa grave di mio padre fu che mi portava il giovedì al cinema Manin. E il giovedì c’erano in genere film di fantascienza. Aveva i biglietti gratis, per via del lavoro in Prefettura.
Allora non c’erano effetti speciali e stupidaggini come le spade laser (le spade laser sono una vera idiozia dal punto di vista scientifico). C’erano invece il contatto con l’alieno, la scoperta di cose altre da quelle conosciute. C’era di nuovo l’indagine e la ricerca per capire. L’intelligenza dello scienziato che risolve il problema e sconfigge l’eventuale pericolo. Con gli occhi di adesso erano film anche un po’ ingenui. Ma per me, di nuovo, era il fascino di cose fuori dell’abituale, la scoperta che esistono altri mondi al di fuori di quello conosciuto.
Naturalmente insieme vedemmo anche un paio di dischi volanti. Erano, allora, gli anni ‘50 e c’erano un sacco di avvistamenti di UFO e noi non potevamo essere da meno.
La fantascienza era per me la scoperta affascinante di cose misteriose che si potevano indagare e lottare, era la rottura dello schema egocentrico. C’erano cose fuori della mia visione necessariamente soggettiva. C’era la possibilità di scoprire che certe cose che si pensavano giuste fossero poi errate o inadeguate.
Questo che c’entra con la professione di insegnante?
Quando io entravo in classe, non c’ero io davanti a un pubblico indifferenziato che doveva sorbirsi formule e teorie e altre cose di questo tipo.
Gli studenti esistevano. Erano lì, ed erano altro da me. Non erano fantocci, numeri, astrazioni.
E il rapporto con loro era sempre immediato.
Si può avere un rapporto reale solo con chi si riconosce essere altro da sé.
E questo porta a un’altra esperienza che mi segnò a vita, come logica derivazione dalle colpe di mio padre.
Prima di avere l’incarico nella scuola pubblica ebbi una ripetizione privata. Era un bambino delle scuole medie, figlio di un meccanico che riparava vespe. Il padre era disperato perché suo figlio aveva sempre quattro (e a volte anche tre) in matematica. Non so attraverso quali canali mi chiese di dargli un po’ di ripetizioni, per salvarlo almeno da fini ignominiose. Non ho mai dato per principio ripetizioni private, ma feci un’eccezione, non ricordo perché.
Erano un padre e figlio molto simpatici.
Poiché avevo le colpe di mio padre alle spalle che mi avevano già segnato profondamente mi rifiutai di rispiegare la matematica ripetendo quello che c’era sul suo libro.
Ero affascinato da un problema. Perché NON capiva la matematica?
I passaggi e le varie cose collegate per me erano ovvie. Ma ripetere le mie ovvietà mi sembrava una grande perdita di tempo per me, ma soprattutto per lui. Lui già seguiva in questo modo le lezioni a scuola. Ripetere le stesse cose sicuramente non sarebbe servito a niente.
Allora incominciai a smontare le sue difficoltà .. dall’interno. Se non capiva un passaggio o una conseguenza logica ci sarà stato pure un qualche motivo.
E lui esisteva, perbacco, era un altro da me. Perché non capiva la matematica?
Gli smontai le difficoltà una a una. Era ovvio che dirgli “ma come fai a non capire questo?”, magari in tono arrabbiato, non avrebbe risolto. Non seguiva un passaggio? Allora mi fermavo e scavavo i motivi per cui non seguiva, andavo a ritroso fino a risolvere.
Ero pagato per un’ora per volta. Ma gli facevo un’ora e mezza abbondante.
Il bambino improvvisamente passò dal quattro all’otto. Non ebbe più bisogno di ripetizioni e alla fine prese otto in pagella.
Il padre era felicissimo e quando ebbi l’incarico statale e me ne andai da Genova in Sardegna (ma questa è un’altra storia ancora) mi voleva regalare una vespa che aveva rimesso a nuovo per me.
Ma io non sapevo nemmeno andare in bicicletta e tanto meno avevo patente. E partii per la Sardegna senza la vespa.
Questo mi segnò a vita. Il mio lavoro era insegnare matematica e fisica, non esporre la matematica e la fisica a fantocci vuoti, a un pubblico annoiato.
Se la gente non capiva qualche cosa non era per malvagità, noia, resistenza passiva. Bisognava capire dov’erano le difficoltà. E le difficoltà variavano da classe a classe, da persona a persona. Un lavoro per me molto affascinante.
Una risposta a “Fu tutta colpa di mio padre”
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Grande Nino…lo farò leggere a mia nipote 17 enne
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