Elio Fabri
Piuttosto che maledire il buio, è meglio accendere una candela (Lao-Tzu). Ovvero:non stare lì a lamentarti, ma datti da fare; non potrai forse ottenere molto, ma un po’ di luce potrai farla
È buona abitudine, quando inizia una nuova rubrica, enunciarne scopi e programma; e magari, se non altro per soddisfare la curiosità dei lettori, spiegarne il titolo. Cominciamo dunque da qui. Mentre pensavo a un possibile titolo per questa nuova rubrica, mi è capitato di leggere, non so più dove, la citazione di Lao-Tzu che ho messa in epigrafe. Da lì è nata l’idea: mi è parso lo spunto per un titolo semplice, ma dai molti significati (si dice “polisemico”?)
In primo luogo, poiché questa rubrica sarà tenuta da un fisico su di una rivista che si rivolge a insegnanti di scienze, la candela vi si adatta, come oggetto tipicamente interdisciplinare: sia nel suo impiego (la luce, la fiamma, il calore, la combustione) sia nella sua costituzione (materia organica, di origine animale, vegetale o fossile).
Poi c’era il richiamo al tempo lontano (ma non troppo: circa un secolo) in cui la candela era un importante strumento d’illuminazione. A noi oggi sembra incredibile che si potesse lavorare “al lume di candela”: eppure quante opere d’artigianato, ma anche romanzi, composizioni musicali, lavori scientifici, sono stati fatti a quella piccola luce?
Che cosa voglio dire con questo? Per esempio, che non sempre occorrono strumenti moderni e sofisticati per arrivare a grandi risultati; e quindi che la scarsità dei mezzi non è un buon alibi per un lavoro di cattiva qualità, anche nella scuola. S’intende che non sto facendo l’esaltazione del pauperismo; è sacrosanto battersi perché la scuola abbia, anche in termini di sforzo finanziario, il posto che le compete nelle priorità di una società moderna. Solo che la ricchezza delle dotazioni non può supplire alla povertà delle idee, e viceversa ci sono tante buone cose che non richiedono grandi mezzi.
Last but not least, la frase di Lao-Tzu mi è sembrata adattarsi assai bene al nostro campo di lavoro, dove la spiegherei così: spesso protestiamo perché l’insegnamento scientifico è insufficiente e poco considerato, perché — come disse una volta Feynman — nonostante le apparenze nella nostra società “science is irrelevant” (la scienza non conta). Oppure, visto dall’altra parte, perché gli insegnanti non sono preparati, o motivati, ecc. Tutte cose piuttosto giuste, però Lao-Tzu c’insegna: “non stare lì a lamentarti, ma datti da fare; non potrai forse ottenere molto, ma un po’ di luce potrai farla.” In tutti questi anni in cui parte del mio tempo è stata spesa per l’educazione scientifica, mi sono spesso confortato nei momenti di dubbio con quest’idea: se non facessimo niente, le cose (forse) andrebbero anche peggio. Perciò teniamo accesa la candela.
A proposito, la candela è una sorgente di luce piuttosto debole; qualcuno/a vuol provare a porre in classe questa domanda: “fin dove arriva la luce di una candela”? Mi piacerebbe conoscere le risposte, perché mi aspetto che potrebbero essere interessanti. A dire il vero ci sono già dei dati in proposito (intendo non su dove arriva la luce, ma su cosa ne pensano i ragazzi); ma sono poco noti, e vorrei vederli confermati.
Mi obietterete che questa è una domanda di fisica? Sì e no: c’entrano anche le idee sulla percezione visiva, e altre. E poi, che ne direste di quest’altra domanda: “come mai a occhio nudo si vedono solo circa 6000 stelle degli almeno cento miliardi che costituiscono soltanto la nostra galassia?” Ne riparleremo un’altra volta.
Con le ultime frasi sono passato insensibilmente dalla spiegazione del titolo a un’esemplificazione del programma; trattiamone ora più esplicitamente. Dico subito quello che non mi propongo di fare: non farò delle lezioni di fisica, o della propaganda alla fisica (questo forse un po’ sì, ma cercherò di essere discreto).
Prima di tutto, m’interessa contribuire a una ripresa di contatto fra studiosi e insegnanti delle diverse aree disciplinari (senza grandi pretese: è solo una candela …) e in particolare a mettere in comune problemi, esperienze, risultati. Nel far questo, so già che incontreremo una difficoltà di base: quella dei linguaggi, che specializzandosi e non interagendo tendono a diventare sempre meno comprensibili a chi non li parla d’abitudine. Peggio ancora, può accadere che le stesse parole denotino per noi cose diverse, o abbiano diverse connotazioni (associazioni, aree semantiche, ecc.). È tutto un campo da esplorare, per il quale conto sull’aiuto dei lettori, perché da solo potrei fare ben poco.
La motivazione didattica è evidente: nella scuola ci sono docenti con diverse formazioni e interessi, che si rivolgono ad allievi nei quali debbono sviluppare la capacità d’interpretare razionalmente la realtà, e non la tendenza di pensare a compartimenti stagni (il prof di fisica vuole che diciamo così, mentre quella di scienze la vuole cosà). Questo obbiettivo sarà difficile da raggiungere, se tra i docenti non si stabilisce un sufficiente scambio d’idee, un confronto di metodi e di risultati, e prima ancora una comunanza di linguaggi.
Uno dei modi di favorire questi contatti, è di prendere in considerazione fenomeni e situazioni del mondo reale per guardarli da diversi punti di vista, caratteristici di diverse scienze (con i miei limiti: dopo tutto sono solo un fisico). Chi ha scritto “i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta”? So bene che a noi fisici talvolta si rimprovera proprio di esserci un po’ troppo staccati dal “mondo sensibile,” che è assai più complicato delle nostre comode schematizzazioni; ne riparleremo, ed è soprattutto questo che avevo in mente quando sopra ho scritto, un po’ per scherzo, di “propaganda alla fisica.”
Sarà quasi inevitabile toccare alcuni grossi problemi (il riduzionismo? il ruolo della complessità? quali altri?) Al momento non ho in mente nessun “indice di argomenti,” e vorrei seguire un approccio poco formale e poco strutturato, ossia lasciare che i problemi si presentino quasi da sé. Aggiungo che mi farà molto piacere qualche stimolo dei lettori, e anche qualche polemica: “la filosofia medesima non può se non ricever benefizio dalle nostre dispute”… e anche i ragazzi ai quali insegniamo, aggiungo io.
Per questa volta vorrei concludere con una seconda richiesta di collaborazione, che rivolgo ai lettori più volenterosi. Si tratta del noto “esperimento della candela” (è proprio polisemica!) che in tanti libri di testo di scuola media viene usato per dimostrare che nell’aria circa un quinto (in volume o in peso, fa poca differenza) consiste di ossigeno. E un esperimento semplice, e che riesce bene: anche troppo… Vorrei che qualcuno/a provasse a eseguirlo in condizioni controllate, e me ne comunicasse l’esito; poi lo commenteremo.