La fantascienza ha vestito panni molto diversi nel corso del suo viaggio ormai diventato secolare. Dalle riviste di tecnica degli anni 20 del XX secolo alla fantascienza di confine dei nostri tempi. Confini della percezione, confini dell’Io, confini della tecnologia.
La fantascienza da sempre ha avuto molte anime. Tentare di abbozzarne la classificazione «sistematica» va molto oltre le mie capacità e lo scopo di questo articolo. Tuttavia, parlando di confini, può essere utile cominciare a ragionare in termini di prossimità e lontananza.
La fantascienza ha assunto le sue sembianze di narrativa d’anticipazione tecnologico-scientifica negli anni venti dello scorso secolo. All’inizio costituiva un «angolo» di relax per appassionati elettricisti, progettisti, persone comunque dedite alla tecnologia in senso applicato. Si trattava di brevi narrazioni, compilate da amatori, prive di valore letterario e strettamente legate a problemi e a nuove soluzioni tecnologiche.
A questa fase ne è seguita un’altra di più ampia diffusione per mezzo di pulp e libri da pochi centesimi. Il filone tecnologico si è così innestato su tradizioni di letteratura fantastica e del meraviglioso che preesistevano (basti pensare a E.R. Burroughs) o di speculazione filosofico-storica (basterà ricordare H.G. Wells e Jules Verne), dando origine alla fantascienza propriamente detta. La fantascienza degli «anni d’oro», quella di autori come Edmond Hamilton o John W. Campbell jr., possedeva una forte dimensione superomistica, una visione ottimistica dello sviluppo scientifico, era quasi sempre xenofoba, immancabilmente sessista e del tutto priva di personaggi psicologicamente caratterizzati. Semplice ciarpame letterario, in apparenza e forse anche in sostanza. Riflettere sul medium dell’epoca a questo punto diventa importante.
La fantascienza di quegli anni era caratterizzata dalla sua periodicità. Aveva un vasto pubblico affezionato (fidelizzato si direbbe adesso), che se non voleva essere «turbato» da problemi psicologici o sessuali o sociali, era però animato da un grande desiderio di avventura. Le necessità dettate dalla forma «giornalistica» (nel senso di periodica) della SF di quegli anni e dal tipo di pubblico al quale si rivolgeva può, credo, abbondantemente spiegare le sue caratteristiche.
La SF di allora riduceva i rapporti sociali a puri rapporti gerarchici di potere. L’ambientazione militare, omofila, era la regola. Uno o pochi personaggi si assumevano la responsabilità di condurre a lieto fine la vicenda. Sembra riemergere qui, dopo un percorso carsico secolare, la figura del cavaliere solitario, con un destino (o un corredo cromosomico) segnato, chiamato ad adempiere a una funzione sacrale. Come è stato per il romanzo cavalleresco, seppellito dal Don Quixote, sono venuti in seguito romanzi e autori che hanno finito con lo snaturare e da ultimo rovesciare il senso originale della space opera tradizionale.
Basti pensare ad autori come Jack Vance, Frederick Brown, Murray Leinster (un romanzo come Anonima talenti esemplifica già abbondantemente la mia tesi) fino a James Lafferty, Philip Josè Farmer e, ancora di recente, a Douglas Adams con Arthur Dent, Ford Prefect e gli altri autostoppisti galattici.
Interessante notare, in ogni caso, che intangibile rimaneva, per ognuno di questi autori, il senso di meraviglia e smarrimento dato dalle dimensioni (non in senso metrico decimale) inconcepibili dell’universo. A fare da collante, da prerequisito per chiunque abbia letto o scritto fantascienza è la «coscienza della natura non convenzionale della realtà».
Detto di passata questo spiega perché anche autori come Philip K. Dick, un filosofo gnostico nato in ritardo di un millennio e mezzo e che apparentemente ben poco deve alla cultura scientifica, o Theodor Sturgeon, narratore non definibile, possano e debbano essere ammessi nel campo del genere.
Nel mutare le coordinate, gli autori di fantascienza hanno posto sempre sempre maggiore attenzione al tema della percezione. Il concetto di «confine» trova qui una sua chiara articolazione. Se sino alla fine degli anni quaranta non vi erano dubbi sull’agente percettivo, sulla sua forma mentis, tendenzialmente nemmeno sul colore della pelle e sugli attributi sessuali, da un certo momento in poi la soggettività e la parzialità divengono la regola.
Mutano, in senso letterale, i protagonisti. Alieni, animali (si pensi a Paul Linebarger [Cordwainer Smith] e ai suoi «omuncoli»), esseri umani disadattati, folli, mentalmente malati o tossicodipendenti (Scrutare nel buio, capolavoro di P.K. Dick), oggetti, bambini (pensate a Sturgeon e ai suoi Cristalli Sognanti) e persino le donne (è il caso di fare nomi?) possono divenire attori del romanzo e del racconto di fantascienza.
La molteplicità, l’instabilità del punto di vista accrescono sensibilmente il fascino del genere, non solo, ne correggono la direzione guidandola per la prima volta nei territori dell’avanguardia. La rottura con la fantascienza tradizionale, «popolare» non è mai, tuttavia, completa.
La «società letteraria» fantascientifica vede, soprattutto in quegli anni, furiosi scontri politici mentre restano in sordina snobismi stilistici e insofferenze estetiche. La società letteraria fantascientifica, discriminata dalla letteratura maggiore, non riproduce nel suo interno gli stessi meccanismi di esclusione e ghettizzazione. Un elemento interessante nel mondo letterario, in genere fortemente gerarchico e altamente ritualizzato.
A unire lettori e scrittori di disparata provenienza e culture dissimili la fascinazione per l’instabilità del reale, per la ricerca di un filo capace di spiegare il mondo per contrasto, esplorandone i confini a partire dai territori dell’ignoto.
Chi già negli anni venti leggeva fantascienza, cercava forme non completamente irreali di evasione. Fiabe e avventure che però non si separassero troppo nettamente dal flusso quotidiano degli eventi. Non solo, una delle funzioni primarie del genere era quella di rassicurare il lettore (come nell’utopia settecentesca e ottocentesca, ma con una forte impronta tecnologica) che si sarebbe trovata una ragione al mondo e che le cose non avrebbero che potuto migliorare. Conflitti di ogni genere avrebbero trovato scioglimento e sarebbero letteralmente evaporati in un mondo che avrebbe risolto il problema del lavoro, della fame, della malattie, dell’infelicità. Era una febbre da futuro che pervadeva l’intera società nei primi decenni del secolo, una febbre che alternava visioni celestiali e pacificate a incubi sociali, basti pensare alla Macchina del tempo di H.G. Wells, a eloi e morlocks, proiezioni del classismo vittoriano. La febbre da futuro non ci ha più abbandonato. Figlia dello sviluppo impetuoso della tecnologia, dell’inurbamento, del capitalismo nella sua fase matura è ancora più virulenta oggi, a futuro iniziato.
La fantascienza è divenuta parte della narrazione urbana contemporanea, racconta ora il presente, con poche variazioni. I suo temi sono la contaminazione, la spersonalizzazione, lo smarrimento o il furto di personalità e, reciprocamente, la personalizzazione, il pensiero negli oggetti, l’intelligenza artificiale diffusa. E non mi riferisco soltanto al ricco filone del cyberpunk, dove autori come Pat Cadigan o K.W. Jeter sanno egregiamente raccontare la mercificazione e lo smarrimento dell’unicità dell’io, ma anche alla space opera propriamente detta. Si pensi all’universo della Cultura di Iain M.Banks.
Un problema di confini, dicevo all’inizio. Confine della fantascienza «classica» era l’insondabilità e l’inesauribilità dell’universo reale. La fisica, moltiplicando le varietà di universi, speculando matematicamente sulle loro origini, forme e destini, ha fornito infiniti materiali al senso del meraviglioso. Lavorando sulle basi del reale, smantellando l’oggettività della percezione, postulando infiniti flussi di tempo divergenti, ha dato credibilità a storie alternative e risvegliato interrogativi sull’oggettività del reale. Basti pensare a opere come La svastica sul sole.
La biologia e successivamente l’etologia e, più tardivamente, l’antropologia hanno fornito materiali in abbondanza per lo sviluppo di ipotesi su possibili società aliene, nello sforzo di relativizzare e storicizzare la società contemporanea. La psicologia sociale, la neuropsicologia hanno contribuito a creare paradigmi di comportamento narrativi. Forse soltanto adesso la fantascienza comincia a incontrare il suo vero confine.
Apparentemente la fantascienza non è mai stata tanto lontana dall’immaginario scientifico. Ormai svincolata dal suo ruolo di messaggera dei mondi possibili, è apertamente in crisi. Contaminata, disertata dal pubblico giovane, saccheggiata e serializzata da cartoons giapponesi e da produzioni televisive e videoclip, è divenuta parte del rumore bianco della fiction mediatica.
Il mondo alieno, il primo contatto, la catastrofe annunciata, il cyborg, l’invasione sono divenuti altrettanti luoghi comuni, veicoli di uno stupore annoiato perfettamente adatto a ospitare consigli per gli acquisti. Parte della sua crisi, tuttavia, nasce probabilmente dalla crisi della scienza.
La scienza non sa più comunicare. Probabilmente nemmeno desidera farlo. La scienza è divenuta un fatto privato. La febbre da futuro è divenuta ansia da futuro. La tecnologia ha inghiottito il pensiero speculativo, i progetti sono stati privatizzati. Nessuno affiderebbe più la felicità del proprio futuro al «progresso scientifico».
Il termine stesso, «progresso scientifico» ha perso qualsiasi valenza universale per diventare parte della retorica della globalizzazione, postulato ovvio per qualsiasi richiesta di fondi pubblici, penosa enunciazione da sussidiario per elementari.
La scienza «privatizzata» è stata fagocitata dalla tecnologia. E tecnologia significa impianti, proprietà, riservatezza, concorrenza. Estranea a essa sono rimaste da una parte la speculazione fisico-matematica, dall’altra le cosiddette pseudoscienze: fantarcheologia, medicine naturali, psicologia junghiana e tutto ciò che si autodefinisce olistico e non riduzionista, ovvero il seme ispiratore della new age. La felicità possibile – ragionevolmente soltanto l’abbondanza – riguarda solo una frazione dell’umanità e la liberalizzazione esasperata ha determinato l’agonia dei programmi spaziali, troppo costosi, con ritorni economici troppo tardivi per un capitalismo dai tempi stretti come il nostro.
Il socialismo reale e la conquista dello spazio sono divenuti residuali quasi contemporaneamente. Una coincidenza curiosa che forse della coincidenza ha meno di quanto ci augureremmo. Il capitalismo trionfante, il modello vincitore dell’unica superpotenza rimasta consta di un prato inglese ben recintato, di una vasca jacuzzi e di un accesso a internet tutelato da qualche supernanny.
Certo, su Marte non esistono gli alieni (se non forse in forma di microrganismi fossili capaci di scatenare l’entusiasmo di pochi) e per le stelle più vicine sono necessari decenni di viaggio senza possibilità di ritorno. Ma non è questo il problema, non sta qui il vero confine della fantascienza.
Alla povertà della visione del mondo offerta da una scienza perfettamente normalizzata la migliore fantascienza attuale ha reagito divenendo esplorazione interiore, scandaglio di «io» sempre più isolati e sofferenti, riflessione sociale e politica sul mondo.
James Ballard ha avuto la lucidità di cogliere perfettamente il momento del transito. Già nei suoi racconti degli anni sessanta parlava di un’avventura spaziale divenuta mito, ricordo, feticcio. Basti pensare a un racconto meraviglioso come La rete di sabbia o alla capsula spaziale che sorvola indifferente il mondo della Foresta di Cristallo. Sulla terra, a disputarsi un mondo più piccolo e sempre più povero di risorse, esseri umani privi di punti di riferimento, armati di piccole morali e senza sogni o desideri. Tra il protagonista smarrito de Il mondo sommerso e l’esploratore dell’enclave di Super-Cannes ci sono quarant’anni di storia e di letteratura, anni che ci hanno portato ai confini della SF e, forse, anche di questo modello di sviluppo.
Soltanto un problema di confine. Confini della percezione, confini dell’Io, confini della tecnologia. Non è questo il luogo e il momento per tentare di valicarli. Ma ho una grandissima ammirazione per il lavoro dei cartografi, sia che tentino di tracciare una perfetta carta dell’Impero, sia che si accontentino di poche note prese per la navigazione.
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