Dina Lentini
Recensione alla raccolta di racconti “L’ultima estate del mondo” di Simonetta Olivo, Delos 2024
Realismo magico. La realtà come proiezione dell’io
I demoni personali, quelli che nascono da desideri e paure primitivi, marcano l’immaginario infantile nell’evoluzione della dinamica soggetto/oggetto. Nella vita adulta le emozioni affondano in quel substrato di esperienze primordiali con esiti diversi di malessere, sofferenza, disperazione. A volte, se l’elaborazione del passato ha in qualche modo funzionato, l’adulto può tentare di recuperare, nel rapporto con l’altro, strategie di sopravvivenza, condivisione, solidarietà.
Simonetta Olivo nei dieci racconti di “L’ultima estate del mondo” ha scelto il registro fantastico per indagare la realtà esistenziale di bambini, uomini e donne che appaiono come “gettati” nel mondo in una realtà oscura, volatile e vuota.
Il passato è trascorso, ma basta un nulla per resuscitare tutta l’angoscia che esso conteneva: un gioco di luci, un aroma particolare, un paesaggio già visto o fantasticato. La persona ha allontanato i suoi mostri e ha scelto, in genere, l’adattamento, meno doloroso, a una realtà fittizia dove i ruoli sono definiti, i compiti assegnati, le relazioni normalizzate. L’oppressione della routine quotidiana può diventare non solo un peso, ma un incubo che trascina e agisce la propria vita, a volte senza alcuna forma di consapevolezza, a volte con risposte ossessive o con qualche gesto tardivo di ribellione. E’ il tema sviluppato in “Fare niente è rivoluzionario”, racconto nel quale la critica sociale al modello produttivo capitalistico e tecnologico è particolarmente forte. Ne “La coda” l’adattamento a una vita in macchina in coda per anni lungo un percorso inutile e vuoto diventa la metafora della routine e dell’annullamento dello spazio, del tempo, di ogni progettualità, dell’azzeramento del sé. Ne “La crisi del settore turistico” è la routine vacanziera con la sua macchina di godimento indotto a far saltare ogni aspettativa di rientro in un mondo che non c’è più. Ne “Il solito parcheggio” un uomo si ribella all’insignificanza della vita trascorsa e si concede un cambiamento drastico, ma deve fare i conti con quel se stesso che è stato e che ancora è.
In “Se telefonando” una donna compie l’estremo atto di difesa rifugiandosi in un rituale conseguente all’annullamento del mondo dei rapporti umani. Ne “Il desiderio del passato” una donna ormai di mezz’età fantastica una pace acquatica di assopimento dei sensi.
La memoria del passato può essere atroce perché è esperienza di una perdita, di un fallimento relazionale o dello scacco dovuto a tentativi di difesa non riusciti. Il tema lacerante della perdita è declinato in questi racconti in tante diverse varianti. Ne “La piscina” un gruppo di bambini sperimenta l’angoscia della rottura inspiegabile del rapporto protettivo genitore/figlio, della disumanizzazione della coppia genitoriale, della cancellazione del mondo. In “Luch”, racconto nel quale il fantastico si tinge di horror, un uomo scopre la sua estrema solitudine, l’assoluta incomunicabilità con l’altro: la sua vita coniugale si è trascinata senza alcuna forma di comunicazione e conoscenza, lo sguardo sulla moglie genera una vera angoscia dell’estraneo.
Con grande sensibilità l’autrice descrive paesaggi umani che sono vite alla deriva, viaggi verso il nulla. Eppure qua e là, nella disperazione di essere e/o ricordare, i protagonisti di questi racconti lanciano segnali di aiuto e compiono preziosi piccoli gesti di solidarietà. Ne “La piscina” il bambino di allora ormai padre spera in un rapporto di tenerezza e serenità col proprio figlio. Ne “Il desiderio del passato” la protagonista, figlia di una madre assente e anaffettiva o vissuta come tale, ha riservato alle proprie figlie un destino educativo e un rapporto diverso dal suo. Ne “Il solito parcheggio” l’uomo che ha trasformato la propria vita compie un gesto di pietà per quel se stesso che porta dentro di sé.
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