La n. 6 e la n. 11, sono tratte dal Cavadenti di Caravaggio. La mano del poveretto costretto l’estrazione è mano di povero, rugosa e callosa, che si apre come un ventaglio per compensare il dolore. Contorta e asimmetrica trasmette all’osservatore un sentimento di dolorosa sottomissione.
La n.12 è tratta dal San Tommaso di Caravaggio (cerchia). Il dito affonda guidata dalla mano del Cristo. Si notano tre arti, tutti articolati e legati tra di loro, in una sorta di gioco che ha come punto nodale la ferita che non sanguina, aperta e profonda a significare l’enormità del sacrificio del Messia.
La n. 7 è la mano del Ragazzo ferito dal Ramarro di Caravaggio. La mano ha una posa quasi che il giovane avesse voluto accarezzare l’animale ma da questi è improvvisamente ferito. Conserva, pertanto, un doloroso stupore, quasi elegante nel suo esprimersi, per non dire vezzoso.
La n. 2 è l’adorazione dell’angelo che bacia la mano ferita del Cristo deposto dalla Croce. Pallido e appena sanguinolento, l’arto è dinoccolato, piegato al suo destino. La chioma bionda e le labbra nascoste del giovane celeste, danno una cieca sensualità alla scena, mentre la mano di riporto che regge l’arto di Gesù lo fa con delicata sottomissione che si avverte dalla scomparsa di tutte le dita tranne che del pollice.
La n. 3, la n. 4 e la n. 10, sono mani di cultura e di otio religiosorum, con la bella citazione di Aristotele mostrata da San Gerolamo che regge il pesante libro (3). La penna, sempre dello stesso santo, in un altro quadro (realizzato dal Maestro del lume di Candela) volteggia impugnata con gentilezza quasi rispettosa. Infine, la 10, raffigura un gentiluomo che legge un libro. Ovviamente esso si presenta vestito da ricco borghese, con mani curatissime che, evidentemente, non hanno mai svolto lavori manuali, impugnanti un libro che, da rilegatura e finimenti, deve esser stato molto costoso. La cultura, dunque, appannaggio dei pochi, non alla portata di tutti.
La n.5 raffigura le mani di Dalila che taglia i capelli a Sansone su un quadro di scuola romana del XVII secolo. La maestria con cui le dita della donna sono raffigurate, presuppongono una straordinaria mano d’artista. Esse, infatti, volteggiano come sui capelli dell’uomo quasi sfiorandoli, per non svegliarlo dal suo dormire.
La n. 1 e la n. 9 tratte dal San Girolamo Penitente di Domenico Fetti, mostrano le due mani del santo in modo diametralmente opposto, una forte e atletica, seppur nodosa e vecchia, che impugna un sasso per fustigarsi; l’altra tremante, contorta su sé stessa, vicino al cristo in Croce che sembra quasi sottomettersi alla volontà di espiazione dei peccati.
La n. 8, con le mani che impugnano l’iconico teschio di San Girolamo in Preghiera (Maestro del Lume di Candela), indica un rispetto profondo e quasi iconico della morte. Perché il pittore ha ritratto il teschio che guarda verso il santo e non, come altri artisti, che guarda l’osservatore? Il santo sfida la sua condizione di morituro o, invece, l’assorbe e la fa propria in un’estasi contemplativa che è quasi gioia della sua condizione di essere fragile destinato a morire? Le mani, con le dita corte, quasi tozze, per nulla rugose e invecchiate, sembrano quelle di un bambino che deve ancora crescere, mentre il libro su cui poggiano predispongono chi osserva a guardare tutto nell’ottica che la conoscenza è l’unica cosa che su cui si base la fragilità umana.
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