Guido Pegna
Un racconto di Guido Pegna che non è soltanto un fisico, uno scienziato dedito alla sperimentazione scientifica e al laboratorio, scrive anche racconti. E questo è uno di quelli.
“quando c’è solo i grilli nella campagna tutta buia a puntuare il tempo del mondo… (C.E. Gadda).”
una trentina di anni fa iniziò una grande ondata di esodi verso le campagne…
Con l’avvento della “nuova sensibilità ecologica”, con l’aumento del traffico e dell’inquinamento, con la constatazione della solitudine alla quale ci siamo ridotti nelle città, in questa vita insensata tutta lavoro e televisione, già una trentina di anni fa iniziò una grande ondata di esodi verso le campagne. Molti si comperarono una casetta con un po’ di terra intorno, in orribili posti ai margini delle città, a portata di auto dal posto di lavoro: “per iniziare una nuova vita” sana, all’aria buona: da pendolari. I più audaci vendettero tutto e attuarono un cambiamento senza ritorno, nella speranza di sopravvivere per i primi tempi con le bietole e le bacche selvatiche, ignari del tutto, come erano, dei cicli, dei tempi e dei modi di produzione del primario: ma indispettiti e pieni di rimorso al vedere di quanto erano aumentati, nel frattempo, i prezzi dei loro appartamenti appena venduti in città. Tutti per accorgersi subito di quanto più tragica fosse la solitudine nelle campagne: nessuno degli amici entusiasti che avevano aiutato nel trasloco e avevano promesso visite quotidiane e financo aiuto nel lavoro campestre, che venisse mai; i vicini di casa colonica chiusi e ostili, peggio degli odiati condòmini del maledetto condominio. Sull’onda del rifiuto dei modelli di vita della borghesia bottegaia e affarista che si ebbe in seguito, il fenomeno si allargò e portò alla formazione di una moltitudine di comuni agricole, cooperative pastorali, insediamenti spontanei, comunità agroconfessionali e agrognostiche, centri arcadici dove si praticava il libero amore.
Si trasferirono in campagna panteisti e immanentisti, meditatori trascendentali, dentisti, adoratori di antiche divinità egizie, dionisiaci, fuorusciti del Black Power, convertiti all’integralismo islamico, vedove sarde, emissari della CIA, Hari Krishna, figli dei fiori, monaci tibetani, inventori di boules ipothérmiques, cacciatori di lepidotteri nostrali, metafisici isolati, ex amministratori di condomìni, fabbricatori di rosari dai nòccioli di olive, intiillimani; tutti a concimar coltivi coi fondi del caffè e le bucce delle patate, spossati, sporchi, sospettosi, ma stolidamente fidenti nella benignità della natura.
I fini contadini invece capirono subito che aria andava a tirare. Dopo averne parlato pacatamente in famiglia ed avere letto con calma i codici agrari, la legge Cipolla e le circolari della CEE, trovarono che pur continuando a ricevere i contributi per non raccogliere i pomodori seminati la primavera prima, potevano chiedere contributi anche per riconvertire le loro aziende a una nuova sinecura: quella dell’agrituris-mo.
Cominciarono così a ospitare banchetti di nozze, feste per la prima comunione, rimpatriate di vecchi compagni di liceo, ammannendo loro venerande pecore male arrostite all’aperto, agri vini allappanti, enormi insalate “proprio naturali” di cardi e bietole selvatiche in grandi tavolate scomodissime, con la gente a sedere su panche fatte con tavoloni da muratore appoggiati su quattro blocchetti di cemento.
I neoconvertiti neonaturisti villerecci misero invece subito il telefono: affrontando spese spropositate per le linee; riuscendo però solo assai di rado a indurre qualcuno a far loro visita, malgrado insistenti promesse di cene a base di prodotti genuini, della terra, e di donatizi in natura.
Il troppo ossigeno, la serena tranquillità, il gallo che ti canta tutte le mattine alle 4,30 agirono sul coriaceo uomo di città in modo non sempre prevedibile. Dopo un po’ che non lo vedevo, andai a trovare un amico in campagna. Lo trovai stranito e con gli occhi molto arrossati. Passava il suo tempo a leggere le “Vite” del Vasari; anzi, amava in particolare le descrizioni delle morti di quei grandi, e a quelle letture gli si riempivano gli occhi di lacrime. Invece di farmi visitare l’insediamento, come mi aspettavo, mi volle leggere subito, sulla morte di Raffaello, il seguente passo:
“…Poi confesso e contrito finì il corso della sua vita il giorno medesimo ch’e’ nacque, che fu il Venerdì Santo d’anni 37, l’anima del quale è da credere che come di sue virtù ha imbellito il mondo, così abbia di se medesima adorno il cielo. Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ogniuno che quivi guardava… perché non fu nessuno artefice che dolendosi non piagnesse e insieme alla sepoltura non l’accompagnasse”, e leggendo piangeva a dirotto.
Fra un singhiozzo e l’altro mi lesse poi della morte del Parmigianino:
“…con alcuni suoi amici si fuggì a San Secondo; e quivi incognito dimorò molti mesi, di continuo alla alchimia attendendo…
Fu preso e messo in prigione, e sforzato a promettere di dar fine all’opera. Ma fu tanto lo sdegno che di tale cattura lo prese, che accorandosi di dolore dopo alcuni mesi si morì d’anni 41. La quale perdita fu di gran danno all’arte, pe la grazia che le sue mani diedero sempre alle pitture che fece”(nota1).
Piangemmo insieme fino a notte, annientati dal dolore per tutte quelle perdite. Poi me ne tornai a casa in città.
Il giorno dopo non senza difficoltà riuscii a procurarmi una copia delle “Vite”. Cominciai anch’io a studiare le morti dei grandi con crescente passione. Quando tempo dopo tornai a trovarlo ero in grado di interrogarlo:
«Chi è quello che, tramutando in villa dei pali di luogo in luogo, di quella fatica si riscaldò e in breve tempo di male di febbre si morì nel 1529?», e lui pronto:
«Andrea del Monte, e avea solo quarant’anni», mi rispondeva con le lacrime agli occhi; oppure:
«E quello che molto dolente per la perdita di una commissione, gli venne un male di rogna pestifera et incurabile, che a poco a poco l’andò consumando, finché ne morì a 49 anni?»
«Alfonso Lombardi», singhiozzava sconsolatamente.
Per risollevarmi, andai a trovare un altro amico che avevo perso di vista da quando si era trasferito in campagna. Abbandonato dalla moglie e dai figli, viveva solo, con molti cani e gatti, alcune pecore, un paio di tartarughe e tre pesci rossi. Mi raccontò subito del gran dolore che l’aveva colpito per la fuga del porcospino, animale selvatico e ingrato, refrattario all’apprendimento e alla cultura. Mi fece vedere come era interessante parlare con i cani e con i gatti, i quali in effetti lo capivano benissimo e facevano tutto quello che ordinava loro, come: “Dai la zampa”, “Vai a dormire”, “Vammi a prendere un po’ di bietole nell’orto”. Mi invitò a provare anch’io.
«Per favore, portami un whisky», dissi a una pecora.
«Ti mangi le parole», protestò lui risentito.
Sempre più incuriosito, riuscii a procurarmi l’indirizzo della fattoria di un altro pioniere, ex pittore affermato e umanista di profonda cultura. Lo trovai che stava trafficando, tutto sporco, attorno ad una serra, con tubi e chiavi da idraulico. Mi fece vedere gli impianti, irti di alta tecnologia. Aveva costruito tutto con le sue mani: climatizzatori automatici, termostati, sistemi di sicurezza, pompe di riserva; impianti di irrigazione guidati da un calcolatore per mezzo di un programma da lui studiato e faticosamente perfezionato per la somministrazione dei fertilizzanti secondo le personali esigenze di ogni piantina: ispirato dalle più recenti conquiste della dietetica degli organismi vegetali; ingegnosi sistemi di monitoraggio, con telecamere in circuito chiuso, preallarmi e allarmi per ogni immaginabile anomalìa. Passammo il pomeriggio davanti a schemi elettronici complicatissimi, che discusse con grande competenza. Gli chiesi che cosa stesse coltivando all’interno della serra. Trasecolò: si portò una mano alla fronte, come per uno sforzo estremo di memoria. Alla fine, con tono incerto, tentò:
«Pomodori Camona?».
L’altro giorno, sulla strada del ritorno da una brevissima gita fuori città, passai a trovare un vecchio conoscente che era stato uno dei pionieri della corsa alle campagne. Lo trovai seduto a un tavolino sotto un albero, davanti ad un calcolatorino portatile. Rideva da solo. Quasi non mi salutò, e continuò a battere sulla tastiera, fra grandi risate, facendomi segno che non poteva interrompersi. Incurante dell’andamento dei cultivar, e con la mente probabilmente ormai indebolita, stava scrivendo sulla nuova vita georgica questo strampalato resoconto.
NOTE
(1) Le parti fra virgolette sono citazioni testuali dall’edizione torrentina delle “Vite” del 1550, dedicata a Cosimo I de’ Medici, secondo la grande riedizione einaudiana del 1991, sapientemente curata dal Luciano Bellosi e dall’Aldo Rossi.