Sciacalli

Uno sciacallo è sempre uno sciacallo, anche se è ben vestito e porta la cravatta.
foto di Nino Martino
Nino Martino

Ci sono vari tipi di sciacalli, ovviamente. C’è lo sciacallo striato, il lupo africano, lo sciacallo dorato, lo sciacallo della gualdrappa, il canis simensis dell’Etiopia.  Bestiole che fanno diligentemente il loro lavoro nell’ecosistema. E poi ci sono gli sciacalli umani.

Forse anche gli sciacalli umani fanno un certo lavoro in un ecosistema — termine un po’ forzato — particolare: una società umana che pare alla deriva in mille linee di sviluppo di cui nessuna appare entusiasmante.

Il primo sciacallo umano l’ho incontrato in TV molti ma molti anni fa. La televisione era ancora in bianco e nero e c’era stato un gravissimo terremoto, uno dei tanti, non ricordo nemmeno più dove. Il paese – o la città? – era invaso dalle macerie. Case distrutte, rase al suolo, morti, gente che ancora era sotto le macerie, squadre di soccorso che cercavano di tirare fuori quelli rimasti vivi.

E c’era anche un giovane giornalista robusto con l’ansia dello scoop. Era il primo ad essere arrivato sul luogo del disastro, si vantava di essere arrivato addirittura prima del soccorso. Uno scoop è uno scoop, significa carriera, significa soldi, significa mettersi in mostra. Bisogna cogliere al volo l’attimo fuggente, la possibilità insperata e fortuita. Bisogna mostrarsi intraprendenti e un tantino spregiudicati  perché questo fa sempre colpo alle gerarchie aziendali.

Si inerpicò tra un cumulo di macerie brandendo non un a pala o un piccone, ma il suo intrepido microfono. Riuscì a scovare un povero cristo imprigionato, stremato, pallido e forse ferito, sotto un cumulo di travi di calcestruzzo. Chiedeva debolmente aiuto.

Lui si inginocchiò, porse il microfono attraverso una breccia, mentre la telecamera riprendeva il volto dell’uomo, stirato, angosciato, bianco di calcinacci.

«Senta, come sta vivendo la sua situazione? » chiese il prode “giornalista”.

«eh…»

«è da molto che è lì sotto? Ci dica le sue impressioni, come sta vivendo quest’esperienza.»

«non bene, non bene, spero che mi salvino presto, non so se ce la faccio…»

Quel cosiddetto giornalista in cerca del suo scoop sparì dalla circolazione, in televisione non lo vidi più, . I tempi non erano ancora maturi. Gli sciacalli umani non facevano, ancora, carriera. Con gli occhi di oggi esistevano molti “ancora“. C’erano ancora in giro troppe persone che leggevano, studiavano, possedevano ancora le armi della critica e un senso di umanità. La guerra passata era troppo recente. I partigiani erano ancora vivi. Il Partito Comunista era tra i più forti d’Europa. C’era la COOP che era una vera cooperativa, una tra le tante nel movimento delle cooperative fiorite nel tentativo di costruire una società diversa che non fosse basata sul profitto capitalistico di pochi.

E adesso cambiamo scenario, veniamo ai giorni nostri: il partito comunista non esiste più e le sue successive metamorfosi liberiste stanno sparendo pure loro. Non si parla più di movimenti cooperativi, né di altri possibili modi di produzione. Siamo nell’era dell’effimero, dei social pervasivi, degli influencer con milioni di follower che ti fanno comprare quello o questo, i libri di saggistica non vendono più, impazzano best seller inutili e tutti vogliono scriverne.

C’è stata l’ondata del movimento con alla testa Greta, ma nei media non è più molto presente da quando ha più volte osato, alla fine, affermare che è la logica del profitto a produrre il disastro ambientale e non solo quello. La causa, dice ora, è il modo di produzione e la logica del profitto, per questo i potenti della terra non cessano di inquinare, distruggere, portare l’umanità al disastro.
Il risultato del riflusso della marea di quelle oceaniche manifestazioni di giovani, di quello che ha lasciato, è che tutto è diventato verde – se preferite la parola alla moda è diventato green, vero che fa un altro effetto? – tutto è diventato rispettoso dell’ambiente, minimizza la produzione di co2 e chiunque nella pubblicità o nella vita reale afferma di essere contro l’inquinamento.
Fioriscono le comuni ecosostenibili e associazioni che fanno del ritorno alla natura, alle vecchie tradizioni e al recupero di presupposti saperi primitivi, il loro nobile scopo.
Allora apro la televisione e la TV adesso è a colori, ad altissima definizione, con una nitidezza stupefacente e lo schermo a led di 52 pollici  è sottile. Abbondano i documentari sulla natura, in genere selvaggia. Paesaggi incontaminati, foreste pluviali, voli di uccelli meravigliosi.
E poi arrivano loro. Si inerpicano su sentieri scoscesi, dopo che la strada è terminata. Arrivano a una malga sperduta, su una montagna sperduta. C’è una vacca, ci sono delle capre. La stanza è povera, fumosa, annerita. L’uomo e la donna e il loro figlio cresciuto sono precocemente invecchiati, con rughe  che in alta definizione rendono bene. Il microfono è unidirezionale, la telecamera li riprende, fa primi piani sugli occhi, sulle bocche.
Lottano per la sopravvivenza ogni giorno, non c’è un istante in cui si possano fermare. Chi li intervista cerca di spingerli verso un’esaltazione di una vita sana a contatto della natura, ma loro parlano di cose pratiche, di quello che devono fare ogni giorno, del fatto che devono falciare a mano l’erba perché le macchine quassù non ci arrivano. Si disperano? No, non si disperano. Vivono. Ogni giorno tocca loro di vivere e non c’è tempo per disperarsi. “Avete scelto una vita meravigliosa, vero?” incalza il reporter. No, dicono, non hanno scelto, il padre e il padre del padre, sono sempre stati qui. Non hanno scelto niente, non possono far altro che stare lì, dove altro potrebbero andare?
Le volte che scendono in paese per vendere qualche cosa e comprare qualche altra cosa si trovano un po’ smarriti e tornano alla loro vita quassù prima che possono.
Chi li intervista condisce di reti di parole le immagini e i filmati. Le scene si spostano sulle valli boschive, sul fiume che scorre là in fondo, sulla bellezza del tramonto, sugli occhi dolcissimi dell’unica mucca, che  da loro il latte e il formaggio, sulle capre libere che visitano persino la stanza, curiose.
Che vita stupenda a contatto con la natura, sì, gli intervistati sono quasi dei privilegiati. Viene il desiderio molto green di vivere lassù, finalmente liberi dalla città, dal rumore, dalla confusione, dalla competizione, dalla vita fole di questa società. Il concetto viene ribadito più volte. Gli intervistati non è che sappiano parlare bene, fanno fatica, le mani sono piene di calli e rugose.

Ma l’intervista è finita. Ora si ritorna in città. Il bellissimo documentario, in linea con la marea montante dei media sul green e sul primitivo e sugli sciamani e sulla magia verde, verrà pagato profumatamente. L’intervistatore felice, con ancora negli occhi la bellezza di una natura incontaminata, torna nel suo grattacielo verde, il bosco verticale, con acqua calda e riscaldamento  perfetto, con le sue pareti coibentate. È un po’ caro, è vero, ma con questi documentari che oggi tirano così tanto se lo può permettere. È una fatica inerpicarsi in posti sperduti, ma alla fine ne vale la pena. E spalmandosi di creme ecosostenibili che rendono la pelle liscia e morbida accende la TV  e la TV è un’esaltazione di biciclette su picchi di montagne che assicurano che una certa acqua è ecosostenibile e che non produce co2.
Greta che ora parla contro la logica del profitto è praticamente sparita. Ha lasciato traccia rovesciata e non voluta.

Chi ha parlato a vanvera – quasi un delirio – si arricchisce sulle spalle dei molti, che ogni giorno devono lottare per sopravvivere. Narrando alla rovescia la loro vita quotidiana.

Sciacalli.

 

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